Oggi il cinico bellicismo che stiamo attraversando rende ancora attuale l’esperienza intellettuale e umana del movimento di donne dello scorso secolo nel quale si fusero etica della responsabilità ed esigenza di mutuo sostegno
Grande è stato nel XX secolo l’investimento di energie intorno al dialogo sulla pace e molte sono state le donne che hanno scelto le politiche nonviolente di difesa a ogni costo della democrazia. Ne è nato un movimento denso di incontri, manifestazioni, petizioni e forme di associazionismo, costituite da attiviste del disarmo e da femministe alla costante ricerca di quel “diritto” a essere coinvolte in tutti gli aspetti della vita.
Sconfitto dalle ideologie responsabili dello scoppio della Prima guerra mondiale, il movimento pacifista femminile, già attivo negli ultimi anni del XIX secolo, séguita a farsi strada come «un impulso di vita», restituito attraverso il ricorso alle immagini della maternità, «dolci per i cuori e le coscienze ferite» (Christine Bard). In Francia, malgrado le numerose prese di posizione a vantaggio dell’Union Sacrée – è il caso delle due giornaliste Marguerite Durand (1864-1936) e Jane Misme (1865-1935) – alcune militanti avevano continuato a opporsi alla strategia delle ostilità, pur nelle grandi difficoltà legate alle accuse ingiuste di défaitisme (disfattismo). Così la sindacalista Gabrielle Duchêne (1870-1954), tenuta sotto osservazione dalla polizia, aveva subito frequenti perquisizioni nella sua abitazione, mentre la giornalista e istitutrice Hélène Brion (1882-1962) era stata arrestata nel 1918 con l’accusa di tradimento. Giudicata per un reato “politico”, pur essendo priva di ogni diritto “politico” (Clio HFS, Les mots de l’Histoire des femmes), sarà condannata a tre anni di libertà vigilata e destituita dalle sue funzioni di insegnante, nelle quali verrà reintegrata solo nel 1925.
Artigiane della pace, nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, altre due propagandiste francesi, Jeanne Alexandre (1890-1980), sorella del sociologo Maurice Halbwachs (1877-1945), e Madeleine Vernet (1878-1949), si adoperarono a favore dell’abolizione degli armamenti unendo all’intensa attività giornalistica la pubblicazione di saggi e pamphlet. Se la prima, nota per il suo «pacifismo integrale» (Cédric Weis) e per aver perorato la causa del suffragio universale femminile, dalle pagine de L’Équité si rivolgeva a tutte le donne per invocare il loro intervento a favore del cessate il fuoco in Europa, la seconda affidava il suo discorso antimilitarista alla rivista La mère éducatrice, fondata nell’ottobre 1917, e a diversi libretti polemici. Tra questi meritano di essere menzionati i saggi Una coscienza pulita e una sporca faccenda (1917) e Dall’obiezione di coscienza al disarmo. Le tesi della volontà di pace (1930).
Nel primo la Vernet ricostruiva l’intera vicenda giudiziaria di Hélène Brion attraverso ricordi personali e preziose testimonianze di quanti l’avevano conosciuta, per fugare le dichiarazioni più fantasiose con le quali si tentava di infangarne il nome. Nel secondo, animata dalla fiducia nelle qualità morali dell’essere umano, la propagandista scriveva: «Tutto risiede nell’uomo. Il suo ingegno è il creatore di ciò che lo ferisce quanto di ciò che gli è utile. Le leggi che lo proteggono, quelle che lo opprimono, le religioni che lo consolano e lo schiavizzano sono figlie del suo intelletto […]. Ma il più delle volte questa verità gli sfugge. Che si inchini o si indigni dinanzi a una credenza o a una legge, non pensa che è davanti alla potenza umana che si sottomette o si ribella. È partendo da questo ragionamento che bisogna studiare e analizzare la guerra […]. La guerra è senza dubbio un’istituzione umana, vecchia come gli uomini, che si è modificata nel corso dei secoli, adeguandosi ai ritmi della civiltà […]. Se la guerra è una creazione umana è dunque tutta nelle mani degli uomini […]. Tutto risiede nell’uomo ed è per questo che dobbiamo essere pieni di speranza. La Pace, la pace totale, si realizzerà. Ma è necessaria la volontà degli uomini» (pp. 103-104).
Altre ancora si affidarono al potenziale insito nel genere narrativo per catalizzare l’opinione pubblica e promuovere le proprie idee. La scrittrice Jeanne Mélin (1877-1964), che si prodigò strenuamente a sostegno del dialogo franco-tedesco, dopo avere esaltato la figura del socialista e grande oppositore del primo conflitto mondiale Jean Jaurès (1859-1914) in Jean ou À travers la misère (1927), nel romanzo Marceline en vacances ou À travers l’amour (1929) fa confluire preoccupazioni pacifiste e ideali femministi militando a favore del controllo delle nascite, dell’educazione sessuale dei giovani e dell’aborto.
A differenza della situazione italiana, che negli stessi anni presentava un pacifismo minoritario, privo di un «vero e proprio leader» (Romain H. Rainero), in Francia, dove il termine “pacifismo” era stato peraltro coniato nel 1900 dallo scrittore Émile Arnaud, il teorico Romain Rolland (1866-1944) aveva pubblicato 16 articoli sul Journal de Genève, poi riuniti nel volume Al di sopra della mischia (Au-dessus de la mêlée, 1915), nel quale si era scagliato contro quel «patriottismo pericoloso» che infiammava gli animi e che avrebbe condotto tutta l’Europa verso la catastrofe. Orbene, lo stesso Rolland si era rivolto a tutte le madri affinché ripudiassero ogni forma di odio, facendo suo quello stereotipo donna/pacifismo che andrà affermandosi quale espressione della “alterità” del sesso femminile «rispetto alla politica e alla guerra, sua appendice, considerate entrambe “roba da uomini”» (Anna Scarantino). Malgrado le gravi lacune storiografiche che ancora oggi persistono, e che sono da attribuire all’assenza di quella che il filosofo torinese Norberto Bobbio (1909-2004) ha definito una «filosofia della pace», la nascita negli anni Ottanta dei Peace Studies [Studi per la pace e risoluzione dei conflitti, ndr] ha messo in luce l’apporto dell’impegno femminile i cui obiettivi universali trovarono una prima forma di internazionalizzazione nel Congresso internazionale delle donne per la pace che si svolse a L’Aja il 28 aprile 1915.
In esso confluirono molteplici tendenze rappresentate da donne provenienti dal Canada, dagli Stati uniti e da tutti i Paesi europei, eccezion fatta per la Francia. Infatti, se si escludono le manifestazioni di solidarietà di Jeanne Mélin, Jeanne Alexandre e Gabrielle Duchêne, in quell’occasione le femministe francesi, avendo aderito alla logica della guerra patriottica, declinarono l’invito. Tale vuoto di rappresentanza verrà colmato in parte lo stesso anno con l’ideazione della sezione francese del Comitato internazionale delle donne per una pace permanente (Cifpp), poi sostituita dalla Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà (la Wilpf), fondata nel secondo congresso riunitosi a Zurigo nel 1919.
Gli avvenimenti contemporanei, quali il terrorismo, le crisi economiche, le guerre locali e quella ucraina, hanno reso ancora più urgente la necessità di operare su vasta scala. È quanto si impegna a fare ancora oggi l’organizzazione, che non ha mai smesso di agire dalla fine del primo conflitto mondiale, muovendosi su un duplice fronte: sensibilizzare l’opinione pubblica sull’ineguaglianza di genere ed esprimere la ferma condanna di ogni conflitto armato, pur ribadendo la propria fiducia nelle istituzioni. Poiché, come afferma Max Weber (1864-1920) nel saggio La politica come professione (1919), «la politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto e confermato da tutta l’esperienza storica che il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile».
Le immagini: foto delle scrittrici e propagandiste Madeleine Vernet e Jeanne Mélin, entrambe di nazionalità francese.
Marilena Genovese
(LucidaMente 3000, anno XVII, n. 201, settembre 2022)