Il fumetto popolare pullula di “villain”, la cui malvagità è funzionale al trionfo finale dell’eroe. Analoghe modalità di suggestione del pubblico più ingenuo sono riscontrabili presso altri mezzi di comunicazione di massa
Nel fumetto popolare, come in tutta la narrativa rivolta alla gente comune, il tradimento è d’obbligo. D’altronde l’eroe, per definizione invincibile, come potrebbe essere messo in difficoltà, se non intervenisse qualche disgraziato ad assumersi l’ingrato compito di fraudolento ingannatore?
Quel genere di fumetto, che si leggeva avidamente (albetti e strisce nascosti nella cartella scolastica, fra testi più nobili ma noiosi), fece un uso spesso ingenuo e inflattivo di figuranti biechi e traditori. Pensiamo, in particolare, ai personaggi della EsseGesse, acronimo dietro il quale si celavano tre autori torinesi: Giovanni Sinchetto (1922-1991), Dario Guzzon (1926-2000) e Pietro Sartoris (1926-1989). Sono nomi sconosciuti ai più, ma tutti, tranne forse i più giovani, ricordano gli immortali personaggi cui hanno dato vita. Capitan Miki, Il Grande Blek, Il Comandante Mark, hanno segnato un’epoca del fumetto e sono rimasti nella memoria di un paio di generazioni di lettori.
Miki e Blek nacquero sulle strisce italiane agli inizi degli anni Cinquanta (rispettivamente 1951 e 1954) e riscossero un enorme successo, non solo in Italia, ma anche in Francia, dove vennero riproposti con nomi e copertine praticamente immutate. Erano personaggi che si rivolgevano a un pubblico più infantile rispetto a quello cui si rivolgeva Tex, nato nel 1948 dalla mente creativa di Giovanni Bonelli e realizzato dalle matite di Aurelio Galeppini (Galep). In Tex non mancano gaglioffi, traditori e belle traditrici, ma le trine narrative sono complesse e mirano a tenere il lettore all’oscuro degli orditi, cosicché i nodi vengono sciolti alla fine della storia, con avvenimenti dai quali non rimarranno sorpresi solo i lettori veramente più acuti.
I personaggi della EsseGesse, al di là delle particolarità di dettaglio, sono collocati in gabbie strutturali e sono mossi da meccanismi narrativi quasi identici. Prendiamo come campione, dunque, Blek, probabilmente la creatura più famosa dei tre autori. Il trapper forzuto e generoso combatte gli occupanti inglesi nelle foreste dell’America di Nord-Est di fine Settecento. I mitici avversari con cui si confronta Blek, le Giubbe rosse, racchiudono tutte le bassezze dell’umanità.
Sebbene la memoria dell’ancora recente occupazione nazista possa avere condizionato i nostri autori nella raffigurazione del nemico di Blek il Macigno, tuttavia la EsseGesse non attribuisce ai perfidi occupanti inglesi neanche un po’ di quella efficienza militare, di quelle aspettative di gloria, di quella malvagia nobiltà che pure si poteva concedere all’esercito tedesco. No, alle Giubbe rosse sono appiccicati i difetti più ignobili legati alla debolezza piuttosto che alla forza!
La forza e la prepotenza delle Giubbe rosse si manifesta solo nei confronti dei più deboli. Miserabili coscritti, più avvezzi alle gozzoviglie che alla guerra, rivelano nei combattimenti vigliaccheria e inabilità, al punto che Blek è in grado di sgominare da solo (e senza armi) intere pattuglie di tali imbelli soldati. La viltà è talmente connaturata in tali individui che non può non trovare manifestazione anche in una caratteristica somatica. Ecco, quindi, apparire, sul volto di siffatti “cattivi”, un ghigno satanico che devasta il volto per metà, in una risata malvagia, grottescamente espressa, che scopre denti grandi e malfatti.
Sennonché il ghigno diventa una caratteristica immancabile di tutti i malvagi che riempiono le pagine create dal nostro trio. Pertanto, tutti i vili ingannatori che capitano sulla strada degli eroi targati EsseGesse rivelano immancabilmente, in tale lombrosiana deformazione, la chiara vocazione a tradire. Tale malefica intenzione di offendere, così fisiognomicamente contrassegnata, si svela con immediata chiarezza a tutti lettori, ma non con altrettanta evidenza all’ingenuo eroe, che immancabilmente si farà ingannare.
La fascinazione di cui si serve il trio di autori è più che evidente. Il fatto che l’eroe non percepisca, sino alle fatali conseguenze (da cui riuscirà, poi, in qualche modo a trarsi fuori) quell’inganno, che è invece immediatamente evidente anche al lettore più giovane e inesperto, pone quest’ultimo in una posizione di superiorità. Una volta tanto, dunque, il fruitore è in grado di controllare lo svolgersi della narrazione, dal momento che nulla gli viene celato. Questa è una grande soddisfazione per lui, soprattutto se molto giovane: può così coltivare l’illusione che un domani si troverà al posto del suo eroe, dal momento che ha provato una preminenza nel comprendere gli eventi, che invece sfuggono del tutto al povero protagonista.
In un altro contesto questo processo è stato bene evidenziato dal semiologo Umberto Eco. Nel saggio Fenomenologia di Mike Bongiorno (in Diario minimo, Mondadori), lo studioso, nel 1961, evidenziava come il successo del celebre presentatore televisivo fosse dovuto al fatto che il pubblico traeva soddisfazione dalle esibizioni di un protagonista tv che commetteva gaffe, ignorante e complessivamente mediocre. In tal modo, lo spettatore non soffriva di alcun complesso di inferiorità e coltivava l’illusione che, visto che quel modesto personaggio riusciva a essere protagonista sul piccolo schermo, allora, un giorno, avrebbe potuto esserci anche lui sul palcoscenico televisivo. Meccanismi simili e piuttosto semplici, rivolti a giovani lettori e ingenui telespettatori, in attesa della messinscena di future suggestioni mediatiche, parecchio più invasive.
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Antonio Tripodi
(LucidaMente, anno VII, n. 83, novembre 2012)