Nel saggio “L’Occidente e il nemico permanente” (PaperFirst) Elena Basile denuncia la follia dell’élite neoliberista e atlantista che, anche a costo di una guerra mondiale, ostacola l’avvento di un sistema geopolitico globale di tipo multilaterale
Il Doomsday clock (l’“Orologio dell’apocalisse”) è stato ideato nel 1947 da un gruppo di scienziati dell’Università di Chicago per segnalare l’approssimarsi metaforico della catastrofe finale per l’umanità. Nel 2023 l’orologio ha raggiunto la massima vicinanza alla “mezzanotte” (appena “novanta secondi”), a causa di tre fattori concomitanti: le guerre in Palestina e Ucraina, la pandemia di Covid-19 e il cambiamento climatico.
La nuova ondata bellica
I maggiori rischi per l’umanità provengono dall’ondata bellicista che sta pervadendo il pianeta (vedi Il bellicismo continuo è una necessità del capitalismo). L’economista Jeff Sachs ritiene che l’odierna escalation militare sia dovuta alle scelte compiute dagli Stati uniti dopo il 1992: «Clinton ha allargato la Nato. Bush ha invaso l’Iraq. Obama la Siria e la Libia, oltre a rovesciare Yanukovich in Ucraina, e Trump è uscito dal trattato sui missili nucleari a medio raggio. […] Biden ha peggiorato la situazione» (Riccardo Antoniucci, «Biden, Trump o Harris poco cambia: è già tutto deciso», ne il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2024).
Tra i recenti studi di geopolitica globale, segnaliamo l’illuminante saggio della scrittrice ed ex diplomatica Elena Basile. L’Occidente e il nemico permanente (Prefazione di Luciano Canfora, Postfazione di Alberto Bradanini, PaperFirst, pp. 192, € 16,00). L’autrice esamina le guerre russo-ucraina e israelo-palestinese, con alcune interessanti riflessioni sull’approccio dei mass media ai due conflitti e sui mutamenti intercorsi nel sistema delle relazioni internazionali.
Le cause della Guerra d’Ucraina
La Guerra d’Ucraina va spiegata alla luce di quanto avvenne nei primi anni Novanta, allorché Michail Gorbačëv «troppo facilmente credette […] agli impegni verbali […] di non espandere la Nato neanche di un centimetro verso Est». Nel ventennio successivo, invece, ben 14 nazioni dell’Europa orientale aderirono all’Alleanza atlantica: Polonia, Repubblica ceca, Ungheria (1999); Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia (2004); Albania, Croazia (2009); Montenegro (2017); Macedonia del Nord (2020).
Vladimir Putin espresse il proprio malumore nella Conferenza di Monaco sulla sicurezza (2007), dichiarando che Mosca avrebbe considerato un ulteriore allargamento come «una minaccia esistenziale alla propria sicurezza». Nel febbraio del 2014, tuttavia, un colpo di Stato in Ucraina rovesciò il presidente Viktor Janukovyč – democraticamente eletto nel 2010 – e consentì l’ascesa al potere del leader filooccidentale Petro Porošenko. Il Cremlino invase allora la Crimea e sostenne militarmente la popolazione russofona del Donbass, insorta contro lo xenofobo regime ucraino.
Il fallimento degli Accordi di Minsk
È così iniziata una cruenta guerra civile che ha causato «14.000 vittime da entrambe le parti». Le trattative di pace, avviate nel 2014, hanno portato alla firma dei due Accordi di Minsk, che hanno stabilito il «riconoscimento dell’autonomia linguistica della popolazione del Donbass». Il governo ucraino, tuttavia, li ha boicottati, utilizzandoli come «un puro diversivo per permettere all’esercito ucraino di armarsi e di essere addestrato».
Nel 2019 Volodymyr Zelens’kyj ha vinto le elezioni presidenziali «con un programma pacifista e favorevole a una riconciliazione nel Donbass», ma il suo irenismo è scemato rapidamente. Nell’agosto 2021 Washington e Kiev hanno stipulato un’intesa militare (Us-Ukraine strategic defense framework) preludio all’ingresso ucraino nella Nato. La Casa bianca, dunque, ha istigato una «guerra per procura», convinta che «la sicurezza dei cittadini e l’economia russa ne risentiranno nel lungo periodo con probabili conseguenze sul consenso dello zar».
Le conseguenze della guerra
Il conflitto russo-ucraino stava per concludersi dopo un mese e mezzo grazie a un trattato che, oltre a garantire l’autonomia al Donbass russofono, «includeva la neutralità dell’Ucraina, libera tuttavia di avvicinarsi commercialmente all’Europa». Il premier britannico Boris Johnson, tuttavia, «avrebbe spinto Zelensky a rifiutare ogni tipo di accordo con Putin» (Stefano Grazioli, Ucraina e Russia, quando la pace sembrava vicina).
Il regime putiniano non è crollato, anzi «si è rafforzato, ha reagito economicamente e ha diversificato le proprie alleanze». L’Ucraina, invece, ha subito un tracollo spaventoso: dieci milioni di sfollati, il 18% del territorio occupato, gravissimi danni ambientali ed economici, almeno 30 mila militari e 10 mila civili morti, nonché 800 mila disertori (vedi In Ucraina aumentano renitenti alla leva e disertori). A gestirne la futura ricostruzione saranno – ça va sans dire – «le grandi aziende che fanno capo alle massime concentrazioni di potere economico BlackRock e Vanguard».
La questione palestinese
Sull’altro versante delle crisi, sempre più drammatica appare la situazione degli abitanti della Striscia di Gaza, dove la crudele repressione attuata dall’esercito israeliano ha provocato oltre 40 mila morti. L’odierna tragedia va spiegata a partire dalla risoluzione 181 delle Nazioni unite (1947) che divise la Palestina in due stati, «attribuendo 14.000 chilometri quadrati di territorio alla comunità ebraica e 11.000 a quella araba».
La Lega araba (Arabia saudita, Egitto, Iraq, Libano, Siria, Transgiordania, Yemen) respinse la proposta e aprì le ostilità, ma fu sconfitta dall’esercito sionista (l’Haganah) supportato dai terroristi dell’Irgun e del Lehi. La nascita dello Stato d’Israele (1948) provocò la Nakba, l’esodo di oltre 700 mila palestinesi verso le nazioni arabe limitrofe. Tre successivi conflitti militari (1956, 1967, 1973) sancirono la supremazia israeliana in Medioriente. Nel 1964, inoltre, nacque l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) che – sotto la guida di Yasser Arafat – fece ricorso al terrorismo, almeno fino ai primi anni Ottanta.
Fallimento del processo di pace
Nel 1987 i giovani palestinesi scatenarono la Prima intifada nei territori occupati da Israele nel 1967 (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est). La leadership dell’Olp approfittò della rivolta spontanea e, accettando la risoluzione 181 dell’Onu, decretò la nascita dello Stato di Palestina. Contemporaneamente furono avviate con Tel Aviv le trattative di pace che nel 1993 portarono alla firma degli Accordi di Oslo.
Il dialogo, tuttavia, s’interruppe bruscamente con l’assassinio del premier israeliano Yitzack Rabin da parte di un fanatico sionista. I negoziati ripresero nel 2000 con il Vertice di Camp David, durante il quale il primo ministro laburista Ehud Barack offrì all’Autorità nazionale palestinese il 92% dei territori occupati. Arafat – pressato dai massimalisti dell’Olp e dagli integralisti islamici di Hamas – rifiutò la proposta: il suo diniego, secondo Basile, «fu la grande occasione persa dai palestinesi». A Gaza, quindi, scoppiò la Seconda intifada (2000-05), fomentata soprattutto dai fondamentalisti musulmani.
L’obiettivo della destra sionista
Hamas vinse a sorpresa le elezioni palestinesi del 2006, sconfiggendo l’Anp (guidata maldestramente da Abu Mazen). Nel dicembre 2008 il premier sionista Beniamin Netanyahu scatenò l’operazione Piombo fuso, che provocò a Gaza «una strage di innocenti: più di 1.400 morti». Sei anni dopo, l’operazione Colonna di nuvola procurò altri 2.300 morti.
Ronald Trump e Joe Biden hanno supportato il sogno sionista di un Grande Israele, edificato «sulla terra promessa tra i due fiumi Nilo ed Eufrate». I crimini perpetrati da Hamas l’8 ottobre 2023 sono funzionali a questo disegno. La destra israeliana, infatti, «ha come migliore alleato l’estremismo terroristico», perché «la violenza […] giustifica gli abusi e il terrorismo di Stato». Come ha opportunamente sottolineato Alberto Negri, dunque, «Israele sfrutta la guerra a Gaza per regolare vecchi conti in Cisgiordania, imponendo la sua sovranità […] e cacciando i palestinesi» (vedi Complici di uno Stato fuorilegge).
La disinformazione sulle guerre
Basile parla poi della disinformazione sulla guerra operata dai mass-media, che considerano l’opinione pubblica alla stregua di «bambini delle elementari». La stampa e le televisioni mainstream, infatti, giustificano acriticamente il bellicismo atlantista e demonizzano i “cattivissimi nemici” dell’Occidente. Il trattamento crudele riservato a Julian Assange – reo di aver pubblicato su WikiLeaks documenti riservati, sgraditi agli Usa – testimonia «la deriva delle odierne democrazie, provata dall’uniformità dei media dominanti e dalla delegittimazione del dissenso».
Le principali notizie sono divulgate da agenzie di stampa internazionali (Associated press, Deutsch presse-agentur, France press, Reuters, ecc.), a loro volta imbeccate «da governi e intelligence con le famose “veline”». I mezzi d’informazione nostrani si limitano a ricopiarle, «utilizzando molte volte l’identico linguaggio». Sul Web esistono indubbiamente testate libere che spiegano obiettivamente quanto accade nel mondo, ma «l’informazione della rete continua a essere marginale».
I mutamenti in atto nel sistema geopolitico mondiale
Nell’ultima parte del saggio di Basile si analizzano i mutamenti in atto nel sistema geopolitico mondiale. La globalizzazione neoliberista – fondata sull’indiscussa supremazia statunitense – è al tramonto e si è avviato il passaggio verso un nuovo assetto delle relazioni internazionali, caratterizzato dalla divisione del mondo in zone d’influenza tra le superpotenze.
La nascita nel 2010 del Brics – l’alleanza economica tra Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – ha fornito un contributo fondamentale per la transizione della governance planetaria dall’unilateralismo al multilateralismo.
L’élite neoliberista e atlantista, tuttavia, tenta di restaurare lo status quo ante e, a tal fine, «lancia una guerra dopo l’altra, […] alimentando un sistema economico impazzito basato sul rifinanziamento del debito pubblico che crea miseria e ingiustizia sociale». Nonostante l’umanità si trovi a soli “novanta secondi” dalla catastrofe finale, sono ancora troppo deboli le voci critiche che – come quella dell’autrice – si levano in difesa della pace e della vita.
Le immagini: la copertina del saggio di Basile; foto dell’autore dell’articolo; a uso gratuito da Pexels (autori: Pavel Danilyuk, Leon Natan).
Giuseppe Licandro
(Pensieri divergenti. Libero blog indipendente e non allineato)