Nello stesso giorno della morte della popstar, duplice attentato in Norvegia con 92 morti. Ma la Rete è tutta per la Winehouse
Novantadue morti certi e altri ragazzi in fin di vita nel duplice attentato di Oslo e Utoya. Novantadue bravi ragazzi, uniti dalla passione per la politica, che militavano nel partito laburista, pieni di progetti e di valori. Novantadue persone e novantadue storie, da moltiplicare per altrettanti genitori, amici, sogni, problemi, aspirazioni. Ma anche novantadue volti sconosciuti, così come le loro vite.
Di Amy Winehouse invece si sapeva tanto e troppo. Del suo talento innato, della sua voce splendidamente imperfetta così come la sua faccia, dei suoi look improbabili e soprattutto della sua vita di eccessi. Amy era solo una, gli altri erano novantadue. Amy l’overdose se l’è cercata, loro erano innocenti e amavano la vita. La maggiore gravità, sia quantitativa che qualitativa, dell’evento di Oslo sull’altro appare schiacciante.
Ma ha un senso cercare di misurare il dolore collettivo? I telegiornali hanno dato spazio ad entrambi gli avvenimenti, eppure nel pomeriggio del 23 luglio bastava aprire Facebook per trovare postati sui profili di molti utenti omaggi, saluti, foto, video, frasi di canzoni, tutti dedicati a Amy. Per dirle addio. Anche da chi magari non l’ascoltava da tempo, o non era mai stato a un suo concerto. Per le vittime di Oslo molta meno partecipazione.
Dobbiamo quindi concludere che siamo tutti superficiali, vittime del gossip e non più in grado di cogliere la vera gravità delle cose? Può darsi. Ma un post su Facebook è spesso un atto d’impulso, e non si fa moralismo sui moti dell’anima. Amy camminava da tempo a fianco della morte, vivendo tra nevrosi e dipendenze, dalla depressione ai disturbi alimentari, dall’alcool alle droghe. Tormentava i suoi ex fino a venire denunciata per stalking, perché voleva essere amata. Saliva sul palco ubriaca e barcollante, deludeva, veniva fischiata, poi si rialzava, decideva di combattere e tornava a stupire, perché aveva in sé il mistero del talento.
Per questo forse a noi di Facebook, popolo di persone comuni, è venuto spontaneo dirle addio, dimenticando per un attimo quelle altre novantadue persone senza volto, comuni quanto noi. Perché c’era qualcosa di noi anche in Amy, nella sua lotta contro i suoi demoni la nostra battaglia quotidiana, nel suo autolesionismo la nostra precarietà, nel suo talento i nostri desideri impossibili, nella sua fine il nostro orgoglio di essere normali.
Ora che abbiamo salutato Amy chiediamo onore e giustizia per i ragazzi di Oslo, vittime innocenti della follia e del fanatismo, e magari nel frattempo cogliamo l’occasione per riflettere sul potere della fama, sulla forza dell’immedesimazione e sulle contraddizioni del cuore umano.
L’immagine: la copertina dell’album Back to Black (2006).
Viviana Viviani
(LucidaMente, anno VI, n. 68, agosto 2011)
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