Il Consorzio interuniversitario fa utili a cinque zeri soddisfacenti per la connessa srl, ma gli studi sulla sua efficacia risalgono a quasi quindici anni fa. È da rivedere il contributo pubblico?
Agosto 2014. Alcuni deputati del Movimento 5 Stelle, appena entrato in Parlamento con le elezioni dell’anno precedente, depositano un’interrogazione scritta al ministro dell’Istruzione e dell’Università Stefania Giannini. Il quesito (qui il testo), firmato – tra gli altri – da Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio, chiede spiegazioni sul Consorzio interuniversitario AlmaLaurea. Fondato nel 1994 da ricercatori dell’Università di Bologna, esso si è allargato nel corso degli anni fino a comprendere 75 atenei, ovvero i due terzi degli istituti di istruzione superiore italiani.
I servizi principali che AlmaLaurea offre sono due: la realizzazione di una indagine statistica annuale sul profilo e la condizione dei laureati e il mantenimento della banca dati dei curriculum dei neodiplomati nelle università consorziate. «Un ponte fra Università e mondo del lavoro e delle professioni»: è questo il claim che campeggia sotto il logo del Consorzio. Il quale, per svolgere la propria missione, a partire dal 2005 ha costituito una società, la AlmaLaurea srl, direttamente controllata dal Consorzio interuniversitario stesso. Tecnicamente, si tratta di un «ente di diritto privato soggetto a controllo pubblico». Proprio sulla costituzione della società a responsabilità limitata si era concentrata l’interrogazione parlamentare a firma M5s: «Contrariamente a quanto previsto dallo statuto del consorzio interuniversitario AlmaLaurea – scrivevano i parlamentari grillini – quest’ultimo ha costituito una società a responsabilità limitata che, ovviamente, sta spingendo l’ente ad andare oltre il dettato normativo e statutario in quanto, attraverso questa partecipazione, vengono perseguiti scopi meramente lucrativi». Inoltre, proseguiva l’interpellanza, «le modalità con le quali AlmaLaurea fa da intermediario con le aziende in cerca di giovani laureati appaiono dipendere da logiche puramente speculative».
L’incontro fra laureati e aziende in cerca di giovani da assumere, infatti, ha un costo: in primis per le imprese, che devono pagare da 550 a 3.200 euro (Iva esclusa) per poter consultare rispettivamente da 200 a 5.000 curriculum di neolaureati. Questo, denunciavano i deputati grillini, non le incentiva alla ricerca di nuovi profili fra i giovani che hanno appena completato il proprio percorso accademico. Come sottolineato dall’Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali Adapt, infatti, la legge Biagi del 2003 imporrebbe «alle università italiane di rendere pubblici e disponibili i curriculum vitae dei propri studenti e dei laureati entro i 12 mesi dal conseguimento del titolo», affinché siano «gratuitamente» a disposizione del mondo del lavoro.
I costi dei servizi di AlmaLaurea ricadono non solo sulle aziende ma, paradossalmente, anche sulle università. Nel 2020, infatti, gli atenei italiani hanno complessivamente versato al consorzio 3.189.057 euro per i suoi servizi. Nello specifico, il contributo richiesto alle Università consorziate ammonta a 5,96 euro per ciascun laureato «inserito nella banca dati». Ulteriori 5 euro entrano nelle casse di AlmaLaurea «per ogni laureato intervistato nell’ambito dell’Indagine sulla condizione occupazionale dei laureati». A questo si aggiungono le quote di partecipazione degli atenei – 236mila euro circa nel 2020 – e un contributo annuale del Miur pari a 750.000 euro, istituito con un decreto del 2019. Il Consorzio, in sintesi, macina utili netti per cifre a cinque zeri, raggiungendo nel 2020 quota 447.591 euro. A fronte degli ingenti contributi pubblici, sarebbe opportuno domandarsi quale sia – al netto delle meritorie indagini statistiche – l’impatto di AlmaLaurea sull’occupazione dei neolaureati. Gli unici risultati apparentemente disponibili (che comunque valutano positivamente gli effetti dell’intermediazione del Consorzio) sono contenuti in uno studio del National Bureau of Economic Research del 2007. Prima di investire ancora i soldi della collettività, bisognerebbe condurre nuovi studi indipendenti. Nel frattempo, dall’interrogazione parlamentare di Di Maio e Di Battista sono passati sette anni. E quella richiesta al Miur di «rendere il più possibile gratuito per le aziende l’accesso alla banca dati dei laureati» è rimasta tale. Un auspicio.
Edoardo Anziano
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 191, novembre 2021)
Indagherei anche su AlmaMater, che in era Covid ha giustamente confinato le lezioni e gli esami “online”, ma non ha diminuito di un centesimo le tasse universitarie per i “non aventi diritto”, rispetto agli anni precedenti, nonostante l’evidente abbassamento dei costi sostenuti.