Oltre ai romanzi, anche la narrativa breve della scrittrice ebrea francese nata in Ucraina è uno spietato disvelamento del banale orrore della famiglia borghese e dell’infelice condizione della donna al suo interno
La famiglia borghese è conformista, ipocrita, caratterizzata da formalismi e fragili apparenze. Per di più, è un groviglio di vipere e un’incubatrice di infelicità e nevrosi, di sottili violenze o vere e proprie perfidie. Tutti, persino adolescenti e bambini, sono falsi, egoisti, odiano i parenti, ordiscono trame. E la condizione femminile al suo interno è una prigione, a volte neppure dorata, un inferno in Terra, con dolorosi rapporti madre-figlia.
Unico collante, il denaro, le ambizioni sociali sfrenate, gli interessi economici, il potere, l’ansia di riconoscimento: «L’ambizioso che non riesce a divorare il mondo finisce per divorare se stesso…» (L’inizio e la fine). La prolifica scrittrice, che ha delineato in tal modo la borghesia e i suoi rappresentanti, è Irène Némirovsky. Di origini ucraine (era nata a Kiev nel 1903) ed ebree, ebbe in sorte un destino crudele. Scampata ai sovietici, che avevano posto una taglia sulla testa del padre, ricco banchiere, giunta infine nel 1919 in Francia in modo avventuroso e miracoloso, la sua serenità e il suo successo letterario durarono poco: fu deportata dai nazisti ad Auschwitz, dove perì già nell’agosto 1942. La sua opera è sconfinata e quasi sempre al suo centro vi è la tematica che abbiamo descritto all’inizio. I suoi romanzi e racconti sono stati pubblicati in Italia da più editori, ma la sua riscoperta si deve alla stampa postuma (2004) in Francia del romanzo incompleto Suite francese e al successo dell’omonimo film del 2014. Inoltre, la sua notorietà nel nostro Paese è legata al fatto che, dal 2005, Adelphi ha iniziato a pubblicarne l’opera completa.
Ora vediamo come la Némirovsky abbia trattato e sviluppato in alcuni suoi racconti la tematica evidenziata all’interno della propria narrativa. La famiglia borghese è una sorta di fredda, scarna cronaca dell’inesorabilità delle tappe che obbligatoriamente percorreva una donna di quella classe sociale della prima metà del Novecento: prima figlia, poi fidanzata, moglie, madre, infine anziana, tutto senza calore e con malcelati infingimenti. In tale testo l’autrice adopera come tempo centrale l’indicativo presente e narra la vicenda di decenni sintetizzandola in circa 40 pagine, impiegando le modalità della sceneggiatura cinematografica. Per una moglie la Domenica scorre nella noia e nelle rinunce, mentre gli altri membri della famiglia cercano vari svaghi. In Legami di sangue al centro sono poste le questioni finanziarie, le meschinità, gli interessi intrecciati di nonni e nonne, suocere e suoceri, padri, madri e figli, mogli e mariti, nuore e generi, cognati e amanti. Nessun nobile gesto è consentito; prevalgono l’oculatezza nella concessione del denaro, il materialismo dei biechi interessi economici («Nel matrimonio, non nell’amore, che è solo un’unione momentanea, nel matrimonio ci sono sempre due gruppi umani che si affrontano. Nelle vene scorre sangue diverso, nemico, e ci si combatte finché l’uno non ha la meglio sull’altro»). L’orchessa è l’indimenticabile ritratto di una madre-manager, che, come Crono, divora la propria prole. Ciò che la anima è il successo, il denaro, costi quel che costi.
Uno scherzo del destino, che assume la forma di un incidente automobilistico mortale, fa cadere il velo di menzogne e inganni di una moglie verso il proprio marito (La confidente). Ida è la malinconica storia della fine di una stella del music-hall, un’anticipazione narrativa del capolavoro cinematografico di Billy Wilder Viale del tramonto (1950). Ovviamente, anche nel personaggio di Ida dominano le abbacinanti memorie del passato contrapposte ai colori patetici e crepuscolari del presente. La confidenza delinea il rapporto di aperta antipatia tra una quindicenne, spigliata quanto poco disciplinata allieva, Colette, e Blanche, una seriosissima istitutrice, ormai zitella e, per di più, gravemente ammalata. Anche la seconda, ormai sbiadita e indesiderabile, specie agli occhi della giovane, ha vissuto almeno una grande passione amorosa: questa è la confidenza che, per un attimo, Blanche fa a Colette, tutta presa dai primi amori. Ma nessuna comunicazione, nessuna empatia è possibile tra le due
La lucidità della scrittrice perviene a riflessioni, quasi aforismi, spietati. Qual è la miseria spaventosa, più di quella dei poveracci del popolo?: «Quella della piccola borghesia indigente di provincia, che però ha “una sua dignità”. […] Non si otterranno mai abbastanza onori, abbastanza trionfi per compensare il ricordo di ciò che si è stati» (L’inizio e la fine). Il matrimonio è un inferno: «Chi saprebbe misurare, spudoratamente e in tutta onestà, le infinitesime frazioni di spossatezza, irritazione e noia di cui sono composti anche gli amori più puri e teneri?»; «Con le mogli […] la fiducia non è possibile. Persino i ricordi, li ascoltano avidamente, raccogliendo ogni briciola del passato dell’uomo che amano per accettarlo o rifiutarlo categoricamente a seconda che abbia a che fare o meno con loro: “È stato prima di conoscermi? O è successo dopo?”»; «Curioso come si finisca, vigliaccamente, per voler mantenere a tutti i costi una precaria pace coniugale! Cosa non si è disposti a sacrificare pur di non sentire i rimproveri delle mogli, di risparmiarsi le loro lacrime!» (Legami di sangue).
E cosa resta della falsità del rapporto coniugale, della noia, della passione presto spentasi?: le «mille, piccole preoccupazioni della vita quotidiana che rinsaldano le coppie più dell’amore» o «quella perfetta, tacita intesa che, fra coniugi, può essere l’unico ricordo, l’unica traccia lasciata dall’amore» (ancora da Legami di sangue). Le riflessioni della scrittrice assumono valenze esistenziali universali. La massima consolazione consiste paradossalmente nella fine dei sogni giovanili e dei desideri che scuotono l’animo: «Che cosa si può voler di più dalla vita che l’assenza del dolore? […] Nel momento in cui ci rendiamo conto di non interessare più a nessuno, nel momento in cui questa consapevolezza, anziché farci soffrire, ci consola e ci calma, allora abbiamo smesso di essere giovani» (La partenza per la festa); «Non aspettarsi più nulla, ecco la pace» (Domenica); «Abbiamo sprecato la nostra vita… Del resto, la si spreca sempre, anche solo a viverla» (Legami di sangue). Tuttavia, il racconto più sconvolgente è forse il celebre Il ballo. In esso si consuma la cieca, irresponsabile e crudele vendetta di un’adolescente, la quattordicenne Antoinette, nei confronti della famiglia e della madre in particolare. La Némirovsky racconta la vicenda in modo distaccato, freddo, avvinghiando il lettore, tenendolo in ansia con l’implacabile, inesorabile avanzare degli eventi. Un racconto al limite del sadismo. Indimenticabile.
Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 188, agosto 2021)