Il saggio dell’antropologo Jonathan Friedman su “Il conformismo morale come regime” (edito da Meltemi) analizza attentamente quello che è divenuto un pericolo per la libertà di pensiero e di parola in Occidente
“C’è del marcio in Danimarca”. Scusate, in Svezia. Non solo per i progetti eugenetici e gli ambigui rapporti tenuti nel corso della Seconda guerra mondiale da molti maggiorenti locali col nazismo, ma perché, forse proprio per rimediare a tali macchie, il paese scandinavo si sta paradossalmente apprestando a proibire la libertà di pensiero e di parola sul proprio territorio.
Il nostro non è affatto un attacco insensato verso un Paese che è considerato tra i più liberi del mondo e con un’altissima qualità di vita e protezione sociale verso i propri residenti. A denunciare invece che non tutto scorre così bene in Svezia (e nell’Occidente liberal) è l’antropologo statunitense Jonathan Friedman (1946) col suo Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime (A cura di Piero Zanini, Meltemi, Milano 2018, pp. 348, € 20,00). Un libro divenuto un classico nell’ambito dell’ormai ampia letteratura critica verso il nuovo pensiero unico occidentale, iniziata con l’ormai celebre La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto di Robert Hughes, pubblicato nel nostro paese da Adelphi nel 1994 (da noi stessi recensito in I tanti, troppi pregiudizi dei “progressisti” bigotti). Come spesso capita nella vita, tutto nasce da un fatto (e da un rancore) personale: l’ostracismo subìto dalla consorte di Friedman, Kajsa Ekholm, anche lei antropologa, accusata di razzismo per aver dimostrato attraverso varie ricerche, come scrive Piero Zanini nella sua Prefazione al libro, «il sostanziale fallimento delle politiche d’integrazione degli immigrati in Svezia».
In effetti, a distanza di tanti anni, oggi è noto che in Svezia l’eccessivo numero di stranieri rispetto alla popolazione originaria ha provocato enormi guasti. Dalla crisi del sistema del welfare (sanità, scuola, casa, ecc.), visto che la maggioranza degli immigrati si appoggia sostanzialmente a esso senza lavorare, potendo fruire di un sostanziosissimo sussidio di disoccupazione, ai problemi di sicurezza e ordine pubblico. Le violenze sessuali sono in continuo aumento e interi quartieri, come Malmö, sono oramai zone in cui la polizia non può entrare, vere enclave di delinquenza, di guerre tra clan di diverse etnie e di spaccio di ogni possibile stupefacente. Ma, si sa, negare la realtà dei fatti costituisce un vecchio vizio delle sinistre e ora dell’ideologia del politicamente corretto, secondo la quale tutto ciò che riguarda migranti, neri, donne, gay, islamici e altre categorie protette appartiene a un empireo intangibile. E chi non la pensa così è innatamente malvagio, antidemocratico, incivile, razzista, fascista, sessista, islamofobo, omofobo, ecc. ecc. Anche quando reca con sé inconfutabili dati statistici, come nel caso della Ekholm.
Friedman affronta la problematica dal punto di vista nel quale è competente, quello antropologico, con alcune pagine che risulteranno ostiche per il lettore distante da tale disciplina, ma anche con una disamina storica di un’evoluzione ideologico-culturale che ha cambiato radicalmente la posizione delle sinistre nei riguardi delle classi lavoratrici, avvertite ormai come “sporche e cattive” (vedi al riguardo anche la recensione del libro di Friedman comparsa su MicroMega on line a opera di Marco Formenti, significativamente intitolata Quelle sinistre che odiano il popolo. Contro l’ideologia del politicamente corretto). Dopo gli anni Sessanta, infatti, secondo Friedman «nei circoli di sinistra si è verificato uno slittamento dal concetto di classe a quello di cultura e, ancora più in profondità, uno slittamento da un progetto di ricostruzione sociale a uno finalizzato all’identificazione di sé». La nuova ideologia del politicamente corretto è appunto individualistica e narcisistica e quindi gradita alle elite e agli intellettuali, ed è un formidabile «mezzo di soppressione del dibattito».
Ogni discussione e dibattito vengono rifiutati perché la verità – l’unica possibile, nonché buona, bella e giusta – è data per scontata per autoevidenza, come un dogma religioso; chi la pensa diversamente o, semplicemente, pone dei dubbi argomentati da fatti e dati non viene rintuzzato dialetticamente, ma screditato, insultato, vilipeso: oltre che con la sopravvalutazione del significato del linguaggio e la sua censura, «il politicamente corretto tende a operare per mezzo di classificazioni e catene associative di classificazioni. […] Non si entra nel merito delle questioni, non si controbattono le tesi [altrui] con argomenti razionali». Del resto, la premessa della nuova cultura è che «la realtà sia un prodotto della rappresentazione e che non vi sia alcuna realtà indipendente dalla rappresentazione»: è vero ciò in cui si crede! Nel politically correct predomina non la razionalità critica, ma l’associazionismo, vale a dire «classificare in categorie preesistenti tanto le affermazioni che i soggetti delle affermazioni». Il biasimo e il controllo sociale diventano la prassi: «Mano a mano che il pensiero critico razionale viene meno, è sostituito dal discorso morale, religioso, che, se praticati contro le persone, diventa una forma di politica morale».
Non si tratta di un pensiero che, in qualche modo, ha prevalso. Si tratta di un’ideologia elaborata, sviluppata e imposta dalle elite arricchitesi con la globalizzazione degli ultimi decenni in quanto funzionale al mantenimento e all’espansione del loro potere, mentre nazioni e popoli sono degli ostacoli da rimuovere: «Il mondo multiculturale, transnazionale e culturalmente arricchito è enfatizzato come “l’unica strada” per il futuro. Qualsiasi messa in discussione di questa ideologia è una minaccia ed evoca paura, persino odio. Coloro che vorrebbero essere locali, che amano il loro “posto”, sia esso un territorio indigeno o una nazione, sono classificati come pericolosi, reazionari, come il male». Le sinistre – e molti loro membri sono ormai ascesi allo status di elite – si sono fatte convincere che i vecchi slogan come “lavoratori”, “giustizia sociale”, “uguaglianza” non valgono più e che vadano sostituiti con «democrazia, globalizzazione e multiculturalismo»; pertanto, non riescono ad accettare una lapalissiana realtà: «L’immigrazione non ha portato a una società multiculturale nel senso buono del temine, ma alla segregazione».
Un tempo «la destra era pro immigrazione, la sinistra era essenzialmente antimmigrazione o per lo meno favorevole a forti controlli» (vedi il nostro articolo dello scorso mese L’immigrazione? Ne sono entusiasti gli ultraliberisti!). Anche il termine «populismo era inteso in senso progressista, il progetto degli impoveriti, degli emarginati delle classi sfruttate, sia rurali che urbane». Oggi al vecchio dualismo sinistra/destra, poveri/ricchi, sfruttati/sfruttatori, si è sostituito un dualismo concentrico, con al centro le elite, i buoni, i virtuosi; ai margini, da disprezzare ed escludere, il popolo, i rozzi, gli ignoranti, coloro che non sanno apprezzare la bellezza del nuovo mondo. L’ovvio antagonismo politico-sociale si è trasformato in giudizio morale! Paradossalmente, il neoliberismo si è identificato col progressismo e col radioso, inevitabile futuro; il socialismo è divenuto retrogrado e conservatore. L’attenzione si è spostata «dalla classe alla cultura, in cui l’operaio di una volta è sostituito dal migrante […]. Coloro che si identificano come progressisti diventano una nuova èlite dominante il cui nemico principale è la classe operaia, o quello che ne rimane, dopo essere stata smantellata e dispersa durante il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro iniziato negli anni ’80». Ecco come Friedman, partendo da una vicenda famigliare e attraverso analisi culturali e antropologiche, giunge a una chiara e veritiera rappresentazione dell’attuale situazione economica, sociale e politica.
Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XV, n. 178, ottobre 2020)