In “Populismo” (Arianna Editrice) l’intellettuale francese Alain de Benoist affronta le tematiche legate ai rovinosi stravolgimenti provocati dalla globalizzazione e dal pensiero unico dominante. E le sinistre? Autoingannate dal dogma progressista
Si dice, forse non del tutto a torto, che chi inizia il proprio discorso affermando che destra e sinistra sono categorie superate e, quindi, non esistono più, è certamente di estrema destra. Eppure… In realtà è sempre stato arduo tracciare dei netti confini tra i due campi politici tipici dell’Occidente. In Italia ci ha provato Norberto Bobbio con una famosa pubblicazione.
Ma oggi ogni semplificazione e schematizzazione risultano pressoché impossibili, e in ogni caso errate, perché le parti, più che mescolarsi, si sono dissolte. O, meglio, sono confluite nel pensiero unico liberal-liberista neocapitalista politicamente corretto. Il populismo è una delle reazioni a tale dittatura ideologica. Si tratta di un fenomeno sociopolitico relativamente nuovo, sfuggente, difficile da definire. Su tali complicatissime tematiche – destra/sinistra e populismo – imbastisce un lungo, approfondito e ben documentato discorso il filosofo francese Alain de Benoist, cui avevamo fatto cenno sul finire di un’altra nostra recente recensione (Come il liberalismo radicale divorò gli ex comunisti). Il libro dell’intellettuale transalpino è Populismo. La fine della destra e della sinistra (Arianna Editrice, pp. 304, € 14,50). Il titolo originale francese è ancora più icastico: Le moment populiste. Droite-gauche, c’est fini! Preceduta da una Prefazione di Eduardo Zarelli (Implosione della globalizzazione e fenomenologia del populismo) e da un’Introduzione dello stesso autore, la pubblicazione di De Benoist è divisa in ben dodici articolati e variegati capitoli e consta di centinaia di citazioni. Insomma, un’opera ricca, dotta, illuminante.
Scrive l’autore francese: «Da diversi decenni il popolo constata che la sua vita quotidiana è stata sconvolta in profondità da evoluzioni sulle quali non è mai stato consultato e che la classe politica, di tutte le tendenze, non ha mai cercato di frenare». I quattro principali sconvolgimenti sono 1) l’immigrazione; 2) l’Unione europea; 3) la globalizzazione; 4) la sinistra divenuta radical chic. Uno. «La vecchia immigrazione temporanea ha assunto il carattere di un’immigrazione di popolamento. Massiccia, rapida, malaccolta e mal controllata, essa ha generato in tutti i campi […] una serie di patologie sociali». E la gente comune che denuncia sofferenze reali vissute sulla propria pelle è stanca di essere accusata di xenofobia, come se il problema fosse il popolo e non la realtà.
Due. La costruzione europea ha provocato non solo perdite di sovranità nazionale, ma un «aumento vertiginoso del debito pubblico, causato inizialmente dalla volontà di salvare le banche minacciate dalla crisi finanziaria del 2008», mentre l’euro toglieva ai singoli stati la «possibilità di decidere sulla loro politica monetaria». Le istituzioni europee sono state concepite dall’alto e rappresentano una sorta di tecnocrazia delle élite. Tre. La globalizzazione ha massacrato i diritti sociali, messo in ginocchio le aziende nazionali meno propense al mercato internazionale, fatto abbassare i salari medi: «Sostenuta dagli ambienti affaristici in nome dl principio di libera circolazione delle persone, dei beni e dei capitali, la globalizzazione è difesa a sinistra per il suo cosmopolitismo morale e il suo umanesimo astratto, essendo tutti d’accordo […] nel legittimare le migrazioni internazionali di massa, l’universalizzazione delle norme, la pressione al ribasso dei salari e le minacce all’occupazione. La globalizzazione produce molti “vincitori” tra le élite, ma milioni di perdenti nel popolo».
Quattro. Un tempo questi “perdenti” sarebbero stati difesi dalle sinistre. Ma oggi nella sinistra, sempre più «mondana e arrogante», prevale l’ispirazione «edonistico-libertaria (radical chic)» postsessantottina, che tende, «più che a tutelare gli interessi della classe operaia, a difendere la “omogenitorialità”, i clandestini, l’“arte contemporanea”, i diritti delle minoranze, il discorso sugli “stereotipi di genere”, il “politicamente corretto”, le fobie corporali e la sorveglianza permanente del comportamento altrui». Sicché il liberalismo culturale è divenuto oggettivamente alleato del liberismo economico nel «distruggere tutte le forme tradizionali di esistenza, a cominciare dalla famiglia, che è una delle ultime isole di resistenza al regno del solo valore commerciale».
Da tale situazione sorge (o risorge?) il populismo, che, scrive de Benoist, «è strutturato intorno a un’opposizione non più orizzontale (destra-sinistra), ma verticale: il popolo contro le élite, le persone comuni “in basso” contro i privilegiati “in alto”». Infatti, come recita il primo capitolo, siamo in piena «crisi della rappresentanza, crisi della democrazia»: alle democrazie nazionali e alla connessa partecipazione a esse del popolo è subentrata la governance sovranazionale; «l’alternativa (sostituita dalla semplice alternanza) diventa impossibile, e un crescente numero di elettori comprende che le elezioni sono libere solo nella misura in cui assicurano la riproduzione, sotto etichette intercambiabili, della stessa classe dominante». Purtroppo, il malumore generale non si incanala in una prospettiva rivoluzionaria, ma, a causa anche della potenza dei mass media e dell’«industria del tempo libero», nella perdita delle proprie identità sociali e culturali; quindi, nel conformismo, nell’accettazione dello status quo e, infine, nella richiesta di «una sempre maggiore integrazione nel sistema vigente».
Tuttavia, sono proprio i meno istruiti, i “popolani”, anche «i meno condizionati dall’ideologia dominante», mentre «i più “colti” sono in realtà i più portati a ripetere i mantra alla moda». Del resto, «l’intelligenza e la cultura non hanno mai premunito contro le idee false», anzi «i grandi disastri storici traggono origine più spesso dal fallimento delle élite che dalla cecità del popolo». Che ora è di moda definire fascista o bestialmente, inesorabilmente, ignorante in quanto non vuole conformarsi ai dettami del pensiero unico dominante.
Per capire come le sinistre siano divenute così “nemiche” del popolo, de Benoist cita le tesi di Jean-Claude Michéa: «La sinistra si è separata del popolo perché ha aderito molto presto all’ideologia del progresso», che comporta dogmaticamente e fanaticamente che il dopo è sempre meglio del prima, che il nuovo è in maniera automatica superiore al vecchio. Le idee socialiste sono state cancellate per essere rimpiazzate dagli slogan dei diritti umani e del cosmopolitismo: tutto astratto, freddo, senza radici, sterile (in realtà, per l’autore di Populismo, anche il tanto celebrato trittico libertà-uguaglianza-fraternità va declinato come concetto politico-nazionale, senza alcuna commistione sociale, economica, morale o umanitaria). Pertanto, viva le “lotte contro tutte le discriminazioni”, tranne quelle contro le discriminazioni sociali e di classe. Benvenuta ogni trasgressione, ogni individualismo, anche se al popolo, in nome della “decenza comune”, ovvero del buonsenso, sembrano follie. E la solidarietà per il prossimo, se questo non ha un nome e una forma specifica, diventa sterile. Il «populismo di sinistra» e il «conservatorismo di sinistra» sono una risposta alla deriva della sinistra radical chic.
Un capitolo del libro che stiamo analizzando è dedicato alle tesi di Michael Hardt e Antonio Negri espresse nelle loro famose pubblicazioni Impero (2000) e Moltitudine (2004). Per de Benoist, da un lato la loro analisi dell’attuale mondo postmoderno dominato dal neocapitalismo finanziario e globalizzante risulta lucidissima e illuminante: «Il mondo è governato non più da sistemi statali, ma da una struttura unica di potere, di un genere mai visto. Questa struttura globale, priva di esteriorità, totalmente deterritorializzata, ha come sostanza politica e normativa l’universalismo cosmopolita»: il biopotere (sic!).
D’altra parte, il sorprendente entusiasmo e l’acritico ottimismo, uniti agli intellettualismi coi quali è accolto il “nuovo mondo”, dimostrano a quale punto di perversione e degrado sia finito il pensiero di sinistra, lontano ormai anni luce dalle stesse idee di Karl Marx. Alle quali, ovviamente, è più vicino un pensatore considerato “di destra” quale de Benoist piuttosto che le attuali presunte sinistre, prevalentemente radical chic o adeguatisi al verbo turbocapitalista e politicamente corretto. Tuttavia, la loro ignoranza e sudditanza, unite all’arroganza e all’intrinseca violenza celata dal buonismo, li fanno ritenere chiunque scriva qualcosa di originale come un pericoloso eversivo… fascista. Per fortuna, anche nel campo “progressista” (vedi Cacciari e Lerner ci spiegano perché de Benoist non è un fascista), c’è qualcuno che non ha perso completamente il dono della lucidità e dell’onestà intellettuale, come Federico Rampini (leggi le nostre recensioni ai suoi libri: Globalizzazione, immigrazione, crisi della democrazia: i grandi mali e Il sonno della sinistra genera mostruosità… economiche, sociali e culturali).
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XV, n. 171, marzo 2020)
Dall’implosione dell’Unione sovietica e dalla cosiddetta “fine della storia” il tema della fine della diade destra-sinistra è entrato nel linguaggio comune, diventando sempre più di moda soprattutto grazie alla riesplosione del fenomeno populista. Sarebbe, però, necessario andare a ripassare l’importante opera di Bobbio citata nell’articolo per rendersi conto di come il superamento di questo scontro ideologico all’interno dei diversi sistemi partitici nazionali non sia possibile, tanto meno da parte del populismo. Quest’ultimo, infatti, è esso stesso “un’ideologia debole” utilizzata sia dalla destra sia dalla sinistra a seconda del contesto storico. Nell’opera “Destra e Sinistra” Bobbio scrive che “siccome gli stessi mezzi possono essere adottati a volta a volta tanto dalla sinistra quanto dalla destra, ne verrebbe di conseguenza che destra e sinistra possono incontrarsi e addirittura scambiarsi le parti, senza peraltro cessare di essere quello che sono”. Ne risulta, perciò, che “destra e sinistra non sono parole che designano contenuti fissati una volta per sempre. Possono designare diversi contenuti secondo i tempi e le situazioni”.La concezione di destra e sinistra, quindi, muta nel tempo.
Non è mia intenzione elencare le varie lacune della sinistra internazionale (tante!) degli ultimi anni, né di come la destra abbia sfruttato questo mutamento ideologico. Quello che mi preme sottolineare è la differenza sostanziale tra la trasformazione ideologica che può avere un dato partito e il superamento della stessa ideologia. La seconda, infatti, sarebbe possibile solamente all’interno di uno stato totalitario a partito unico.