Le piattaforme social diffuse tra adolescenti e giovani adulti puntano tutto sull’intrattenimento mordi e fuggi. Vincendo
Lo scorso 25 gennaio Dom Hofmann, imprenditore e programmatore statunitense, ha annunciato con un tweet la nascita di Byte, una piattaforma sia «familiare che nuova», con la quale gli utenti possono condividere e fruire video in loop della durata di 6 secondi. Byte è l’erede di Vine, un’app di cui Hofmann era co-creatore, fondata nel 2012 e acquistata poco dopo da Twitter; il funzionamento era il medesimo, ma il servizio era stato chiuso a fine 2016 perché non si era diffuso abbastanza nella rete.
La nuova piattaforma potrebbe concorrere con Tik Tok, il social media cinese, ormai noto a livello planetario, con il quale si creano brevi clip – massimo 60 secondi – in cui si reinterpretano pezzi di canzoni, film o video musicali, con l’aggiunta di effetti speciali, filtri e così via. Sembrerebbe proprio che le nuove forme di intrattenimento stiano facendo una gara al ribasso, una sorta di dieta drastica in cui i nemici da eliminare non sono i chili in eccesso, ma i minuti di troppo. Pensiamo invece a pellicole come Via col vento (238 minuti) o Il dottor Živago (200 minuti), a cicli di romanzi come Il Signore degli Anelli (circa 1.250 pagine) o la Recherche proustiana (3.000 pagine). Quanto dev’essere alta l’attenzione per fruire di questo tipo di divertissement? Non si tratta di intrattenimento mordi e fuggi, ma di veri e propri riti, di momenti immersivi, che richiedono concentrazione e tempo. Un video su Byte dura 6 secondi, su Tik Tok al massimo 60; finito uno, avanti l’altro, con quel movimento dell’indice che scorre senza tregua dal basso verso l’alto. Passano pochi istanti e la nostra attenzione riceve uno stimolo nuovo: prima un indiano con sei cani a bordo di uno scooter, poi dei bassotti che corrono al rallenty nel corridoio di casa, poi… E poi boh, è proprio questo il punto. Di quei secondi nella memoria non rimane nulla. Tutto entra ed esce con la stessa facilità.
Però funziona, soprattutto tra gli adolescenti, e i numeri parlano chiaro: Tik Tok è diffuso in più di 150 Paesi e tradotto in 75 lingue, in tre anni ha raggiunto il miliardo di utenti, superando in velocità altri social network come Whatsapp, che per raggiungere lo stesso risultato ce ne ha messi sette, e Facebook, che ne ha impiegati nove. Secondo i dati di Comscore.com, nel periodo compreso tra settembre e novembre 2019, Tik Tok ha triplicato la propria audience, che è passata da 2,1 milioni a 6,4, con un incremento del 202%; in Italia si è registrata la più alta crescita nel panorama internet.
Sul sito di ByteDance – l’azienda cinese, con diverse sedi nel mondo, che lo produce – si dice che la compagnia «si dedica a costruire piattaforme globali di creazione e interazione […] con lo scopo di aiutare gli utenti a esplorare e scoprire la creatività del mondo, la conoscenza e i momenti che contano nella vita di tutti i giorni, consentendo a tutti di essere un creatore direttamente dal proprio smartphone». Questo è un altro punto fondamentale: gli “utenti” non fruiscono più soltanto dell’ingegno di persone a cui la società riconosce lo status di creatori, ma oggi, con il potere dal basso, fruitori e autori coincidono. Luciano Spinelli, classe 2000, youtuber e muser [youtuber che si esibiscono in internet, ndr] attivo dal 2015, attualmente ha qualcosa come 7 milioni e 200 mila follower su Tik Tok; è anche autore di due libri, Insieme e Per sempre. Per capire il suo caso forse bisognerebbe appartenere a quella “generazione Z” (i nati tra la metà degli anni Novanta e il primo decennio dei Duemila) di cui Spinelli fa parte e alla quale si rivolge direttamente. Bisogna ammettere che agli occhi di un nativo non digitale, che abbia anche soltanto dieci anni in più, risulta difficile comprendere le ragioni di tanto successo. Abituati a modelli che vengono dall’alto, distanti e, per loro stessa natura, diversi da “noi”, non è facile comprendere come un ragazzino con il ciuffo biondo che canta in playback e “improvvisa” qualche balletto possa avere tanto seguito.
Ma il punto è proprio questo: di realmente improvvisato quasi sicuramente non c’è nulla. Spinelli è consapevole di aver fatto della sua passione un lavoro (proprio come i veri influencer) e, grazie a questo risultato, ha conquistato un’indipendenza economica che gli consentirà di andare a vivere da solo. Alla faccia di molti trentenni – compresa la sottoscritta – che giudicano e snobbano questi pischelli e che intanto rimangono incatenati ai numerosi “vorrei ma non posso” che li fanno rimanere a casa con mamma e papà. Sono degli ibridi tra i più concreti figli degli anni Ottanta e i fluidi Duemila, che vogliono, si lanciano e raggiungono. Ma questa è un’altra storia.
Le immagini: a uso gratuito da Unsplash.com.
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XV, n. 170, febbraio 2020)
Gentile Chiara Ferrari, ho letto con interesse il Suo articolo e, se può consolarLa (ma io sono molto, molto più vecchia di Lei), a me crea addirittura difficoltà il lessico riguardante le novità di cui parla (muser ecc.). Non solo: non mi rassegno a vedere tanta gente per strada con filamenti pendenti dagli orecchi e che gesticola e parla al telefono; cosa che a me non riuscirebbe perché dovrei quanto meno fermarmi in un angolo silenzioso. Mi spiace la nota pessimistica del “vorrei ma non posso” ma io credo che anche le passioni siano figlie, almeno in parte, del momento storico e di una data epoca, e ora le generazioni si alternano molto rapidamente. Se non si può è perché non si ha quella determinata passione, ma Lei, con questo bell’intervento, mostra di averne altre e Le faccio i miei complimenti.
Gentile Margherita,
La ringrazio di cuore per i complimenti, a volte non è la passione che manca, ma quello slancio un po’ incosciente che spesso sembrano avere i “millenials”. Chissà, forse è più che altro una questione anagrafica. Ad ogni modo la ringrazio ancora e direi che non ci resta che stare a vedere fino a dove ci porteranno i nuovi social network e l’uso compulsivo che si tende a farne.