Intervista ad Alberto Paoletti, direttore del Nucleo indagini private Informark, recentemente premiato dalla rivista specializzata “StopSecret” agli Investigation & Forensic Awards 2019
Codici deontologici, federazioni nazionali, regolamenti sulla privacy: la figura dell’investigatore privato è, fin dal 1989, disciplinata in modo ferreo. Spesso, però, i non addetti ai lavori tendono a equiparare il detective a una sorta di agente segreto, che opera ai confini della legalità e cerca la verità a ogni costo.
«L’immagine che si ha delle indagini è ancora legata esclusivamente a questioni sentimentali», ci spiega Alberto Paoletti, in questo settore da cinquant’anni. Direttore del Nucleo indagini private Informark, premiato da poco dalla rivista specializzata StopSecret agli Investigation & Forensic Awards 2019 e life member della World Association of Detectives, l’abbiamo intervistato in esclusiva per LucidaMente.
Quale percezione ha l’opinione pubblica di questa figura professionale?
«La percezione pubblica è triplice. A livello di istituzioni, godiamo di una buona reputazione, anche grazie all’organizzazione di seminari, studi, e alla partecipazione ad attività ufficiali. Fra i nostri interlocutori privilegiati, gli avvocati, c’è una conoscenza parziale dell’attività: alcuni hanno la mentalità del detectivage, mentre altri richiedono servizi per legge non eseguibili. Infine i privati e le aziende. I primi ricorrono alle indagini quasi esclusivamente per questioni familiari e hanno conoscenze fuorviate. In ambito aziendalistico c’è invece la consapevolezza di poter effettuare indagini in collaborazione con i giuslavoristi».
Crede che la comunicazione di massa influisca su questa concezione pregiudiziale?
«Assolutamente sì. In Italia manca una letteratura che tratteggi un profilo obiettivo dell’investigatore privato. Si parla molto degli investigatori oltreoceano, ma poco di quelli italiani. Da noi l’attività è normata da una legislazione all’avanguardia. In America, invece, il poliziotto privato viene richiesto anche in questioni penali, criminali e rapimenti».
Quali principi etici la guidano in questo mestiere?
«Noi lavoriamo per chi ha subìto un torto, un’ingiustizia, una truffa o un illecito familiare. Moralmente ciò dà grande positività nello svolgimento del proprio compito, che diventa quasi una missione per scoprire la verità, ma sempre nei limiti previsti dalla legge».
Viviamo in una società ormai ipertecnologica. Software spia e malware sono facilmente reperibili in rete. Come si approccia la vostra categoria allo sviluppo informatico?
«Dobbiamo esclusivamente essere ispirati a principi di liceità e correttezza giuridica. L’ottenimento di informazioni attraverso il web è uno strumento molto importante; in rete si lasciano tracce a volte indelebili. Sconsiglio vivamente l’utilizzo di procedure fai da te online: c’è il rischio di essere accusati di violazione della privacy».
Proprio su tale tema si è sviluppata, negli ultimi anni, una maggiore sensibilità, anche a causa dei numerosi casi di furti di dati. Come agite in questo delicato ambito?
«Ci rivolgiamo a tecnici esperti di informatica forense per il controllo dei computer, oppure per bonifiche telefoniche ambientali, se c’è il sospetto che siano state installate cimici o microcamere. Le richieste nel settore sono in aumento, data la maggiore fruibilità di nuove tecnologie».
Come si diventa investigatori?
«La nostra generazione, che ha dovuto combattere con molte incertezze legislative, lascia alle nuove qualche certezza in più. Grazie alla pressione dell’Unione europea per far adeguare la legislazione, dal 2010 è richiesta una laurea in Giurisprudenza e/o Scienze politiche e/o Scienze delle investigazioni e/o Economia. Inoltre, è necessario un praticantato triennale e, successivamente, una formazione costante».
La vostra è una professione ricca di imprevisti. C’è un aneddoto che vorrebbe raccontarci?
«Alcuni anni fa assunsi un ex ufficiale dei carabinieri come collaboratore. Un mese dopo ci venne commissionata un’indagine familiare alle Seychelles. Siccome conoscevo uno dei due partner non potevo investigare in prima persona, così mandai questo collaboratore con la sua fidanzata: soggiornò una settimana, tutto spesato, in quel paradiso tropicale! Ma, purtroppo, sono casi rari… la maggior parte delle indagini non sono certamente piacevoli vacanze».
E.A.
(LucidaMente, anno XV, n. 169, gennaio 2020)