Tra smart working e work life balance, scopriamo le nuove frontiere del lavoro, che potrebbero migliorare la nostra vita a 360 gradi
Quello del lavoro è un tema complesso, da non affrontare con superficialità o con un approccio semplicistico. I fattori da indagare sono diversi e sfaccettati, risulta difficile reperire dei dati che siano oggettivi e non in contraddizione tra loro, le fonti sono spesso faziose e non sempre affidabili. Ma, tolta questa doverosa premessa – che non vuole suonare come un’assoluzione, ma come un avvertimento –, l’argomento è così importante per la vita di ognuno di noi da meritare almeno un tentativo di trattazione che sia il più completo possibile.
Lo scorso aprile l’attuale presidente dell’Inps Pasquale Tridico, economista di scuola keynesiana indicato dai pentastellati come possibile Ministro del Lavoro alle scorse elezioni, ha fatto parlare di sé, oltre che per il reddito di cittadinanza, anche per una proposta nell’ambito dell’impiego. Durante la lezione inaugurale dell’anno accademico 2018/19 del master in Economia dell’Università La Sapienza, Tridico ha affermato: «La riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario, può funzionare come leva per ridistribuire ricchezza e favorire l’occupazione», aggiungendo, «in Italia siamo fermi all’ultima riduzione dell’orario dal 1969, non ci sono modifiche da cinquant’anni ma andrebbero fatte. Gli aumenti di produttività vanno distribuiti o con il salario o con un aumento del tempo libero. Con questa riduzione crescerebbe l’occupazione». La proposta, sull’eco del motto degli anni Settanta “lavorare meno, lavorare tutti”, abbraccia la teoria della ripartizione del lavoro (work sharing), secondo la quale, diminuendo le ore lavorative per occupato, a parità di salario, salirebbero i posti disponibili e ci sarebbe anche un aumento della produttività: infatti chi fatica per meno ore è più attivo e motivato.
Di contro, i sostenitori della teoria classica affermano che ridurre l’orario senza diminuire lo stipendio equivale a un rincaro del costo del lavoro e a un conseguente calo dell’occupazione. Tra l’altro le esperienze europee, Francia in testa, non sembrano suggerire che tagliare le ore corrisponda a un effettivo incremento dei posti di lavoro (per approfondimenti si può consultare il sito www.wired.it).
Al di là dell’aspetto occupazionale, fondamentale ma non di facile soluzione, risulta abbastanza evidente che ci siano dei lati positivi nell’alleggerire il carico di ore lavorative. Nell’ottica della cosiddetta work life balance, cioè dell’equilibrio tra vita professionale e privata, fare meno ore a settimana favorisce il benessere dei dipendenti: più tempo libero a disposizione si traduce in maggiori possibilità di coltivare hobby, socializzare, tenersi in forma, stare con la famiglia. Ma i vantaggi non ci sono solo per i lavoratori, anzi: un impiegato più sereno e motivato aumenta la produttività, che dovrebbe essere il fine ultimo di ogni azienda. A che pro stare ore e ore in ufficio, da bravi workaholic, se poi passiamo almeno la metà del tempo sui social network, ai distributori automatici o su qualche chat di gruppo? Prolungando la giornata lavorativa, infatti, calano l’efficienza e la concentrazione, in sintesi la produttività. In ambito italiano, spesso abbastanza arretrato da questo punto di vista, un esempio virtuoso è rappresentato da Amorim Cork Italia, azienda leader nella produzione di tappi in sughero. L’impresa si distingue, oltre che per l’attenzione all’ambiente, anche per l’impegno nei confronti dei dipendenti in termini di flessibilità oraria, banca ore e home working.
Un altro campo nel quale le aziende italiane sono, come sempre, un po’ in ritardo rispetto al Nord Europa, è quello dello smart working, in italiano “lavoro agile”. La legge n. 81 del 2017 lo descrive come «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività». Tra i punti a favore di questa nuova modalità di impiego c’è, senz’altro, la comodità di rimanere a casa ed evitare quindi traffico, pesare meno sull’ambiente nel caso di spostamenti in auto, svegliarsi con più calma, non avere l’obbligo di un dress code e quindi idealmente poter lavorare in pigiama con il gatto sulle gambe.
In questo caso il vantaggio c’è anche per l’azienda che, in termini pratici, può risparmiare sul posto fisico di lavoro. I contro, d’altro canto, riguardano soprattutto gli aspetti sociali – la mancata relazione con i colleghi, le pause caffè, la condivisione live di idee e progetti – e organizzativi: bisogna senz’altro essere bravi a gestire il carico di lavoro senza la “pressione” dell’ufficio. Altro aspetto a cui prestare attenzione è la perenne reperibilità a cui si è inevitabilmente esposti: con smartphone, pc e tablet a portata di mano, rischiamo di lavorare sempre, rispondendo a e-mail e chat fino a tardi. Anche in questo caso, però, la legge disciplina un po’ questo far west digitale. Nonostante in Italia il diritto alla disconnessione non sia ancora rigido, come lo è, per esempio, in Francia, nella legge del 2017 si prevede che «nel rispetto degli obiettivi concordati e delle relative modalità di esecuzione del lavoro autorizzate dal medico del lavoro, nonché delle eventuali fasce di reperibilità, il lavoratore ha diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche di lavoro senza che questo possa comportare, di per sé, effetti sulla prosecuzione del rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi».
Oggi, che gran parte del carico lavorativo è, e sarà sempre di più, in mano alle macchine e alle nuove tecnologie, la necessità è quella di lavorare meglio in termini qualitativi. C’è sempre più bisogno di imprenditori illuminati, che credano nei loro dipendenti, li stimolino e abbiano fiducia in loro, in modo da non farli sentire un numero ma una risorsa unica e insostituibile. E tanti cari saluti al “tutti utili, nessuno indispensabile”, spauracchio di vecchi leader ormai al tramonto.
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XIV, n. 166, ottobre 2019)