L’ultima fatica del regista statunitense, “C’era una volta a Hollywood”, è nelle sale italiane
Dopo la presentazione al Festival di Cannes e i successivi mesi d’attesa, è finalmente uscito Once upon a time… in Hollywood (titolo originale di C’era una volta… a Hollywood), il recente lavoro del cineasta più eccentrico in circolazione. Nato nel Tennessee, classe 1963, Quentin Jerome Tarantino pare già dall’infanzia destinato al mondo del cinema. Infatti, quando alla tenera età di due anni si trasferisce in California con la madre, la prima tappa è la Walk of Fame (il famoso marciapiede stellato a Los Angeles con incisi i nomi di grandi artisti).
Non c’è da stupirsi, quindi, se la sua nona pellicola appaia come un inno celebrativo alla città degli angeli. Il film si apre appunto a L.A., l’8 febbraio del 1969. I protagonisti sono Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e Cliff Booth (Brad Pitt). Il primo personaggio è un attore di film western, il secondo, invece è il suo stuntman tuttofare. Le due figure rappresentano già da sole un’ode alla Hollywood del passato e odierna. Passata, perché richiama l’intramontabile coppia composta da Robert Redford e Paul Newman in Butch Cassidy, film del ’69 diretto da George Roy Hill che il nostro regista non ha mai dimenticato. Odierna, perché sono sufficienti celebrità come Achille di Troy e Billy Costigan di The Departed per omaggiare lo star system contemporaneo. Naturalmente, il cast non si esaurisce qui, vi sono anche altri professionisti come: Al Pacino, Dakota Fanning, Luke Perry, Kurt Russell, Emile Hirsch e, last but not least, Margot Robbie con Rafal Zawierucha.
Questi ultimi recitano nel ruolo rispettivamente di Sharon Tate e Roman Polański. La coppia abita di fianco a Rick e così, mentre lui spera che un contatto con loro gli favorisca una ritrovata ascesa nel mondo dello spettacolo, la sua spalla, Cliff, fa conoscenza con dei particolari hippies. L’epilogo li vedrà tutti interagire durante la notte dell’8 agosto 1969, ma la conclusione non seguirà alla perfezione l’effettivo svolgimento di ciò che accadde veramente. Difatti, la data corrisponde alla reale uccisione di Sharon e di un paio di amici presso la casa a Beverly Hills, numero 10050 di Cielo Drive, per mano degli adepti di Charles Manson.
Se da un lato la molteplicità dei personaggi e il modo in cui s’intersecano gli episodi richiamano Pulp Fiction (lo stesso artefice ha ammesso che i due prodotti sono molti vicini), dall’altro il lungometraggio s’inserisce nella trilogia ucronica che lo vede preceduto da Bastardi senza gloria e Django Unchained. Uno con Pitt, il successivo con DiCaprio e l’ultimo con entrambi, un caso? Improbabile, trattandosi di Tarantino. Comunque, tralasciando richiami e citazioni perché occorrerebbe molto più spazio, ritorniamo alle re-interpretazioni storiche in oggetto. In tutte e tre le pellicole, il cinema rappresenta una possibilità altra, diversa dalla realtà, ma con l’esplicito intento di poterla modificare. La vicenda storica dal finale fittizio incarna l’auspicio di riuscire a influenzare il presente, partendo dal donare allo spettatore qualche spunto di riflessione. Cosa ha in più C’era una volta… a Hollywood rispetto agli altri? Seppure purtroppo manchi il ricorrente tema della vendetta, qui è il metacinema a essere in primo piano. Un film nel film che parla di film, insomma, una lettera d’amore. Quello che viene messo in scena è il dietro le quinte del processo creativo sia dell’attore sia del regista.
Dell’ultimo scorrono inesorabili il torrente estroso e la capacità di sviluppare infiniti collegamenti tra gli elementi più disparati. Di conseguenza, l’aspetto in rilievo risulta essere il carattere cinefilo dell’autore più che quello registico. Non è un segreto che il filmmaker di cui stiamo parlando sia un maestro negli omaggi. Di solito, però, sembra esserci una sorta di “scrematura”, di sintesi e di scelta accurata; nel nuovo movie un po’ meno. Probabilmente è stato un approccio voluto e ricercato. In ogni caso Quentin Tarantino resta, come dichiara DiCaprio in un’intervista pubblicata sul mensile Storie, «diverso da chiunque altro faccia questo mestiere. Ogni regista è stato influenzato da qualcuno, lui – anche se dice di esserlo stato – è una creazione della sua stessa fantasia, è un personaggio unico e inimitabile».
Arianna Mazzanti
(LucidaMente, anno XIV, n. 166, ottobre 2019)