L’ecosistema del paese nordafricano sembra ormai essere stato distrutto dall’inquinamento, ma c’è chi prova a trovare soluzioni per il futuro
«Così stanno bruciando il mare, / così stanno uccidendo il mare, / così stanno umiliando il mare, / così stanno piegando il mare». Le parole di una delle più famose canzoni di Lucio Dalla sembrano calzare a pennello per il golfo di Gabès, nel Sud della Tunisia, dove da quasi cinquant’anni si sta perpetrando un vero e proprio scempio: non solo si è distrutto l’ecosistema di quella che era un’oasi unica al mondo, ma ci sono anche gravi conseguenze sulla salute e sulla vita degli stessi abitanti, in una situazione che ricorda tristemente Taranto e l’Ilva.
Nel 1972 a Gabès è stata installata la fabbrica del Group Chimique Tunisien (Gct), di proprietà statale, specializzata nella trasformazione del fosfato, proveniente dalla vicina regione di Gafsa, in acido fosforico e in fertilizzanti chimici. Da 47 anni i residui dell’attività dell’impianto, i fosfogessi, vengono scaricati direttamente in mare attraverso un canale a cielo aperto: in media 40.000 m3 al giorno di argilla nera, carica di metalli pesanti e leggermente radioattiva. Le conseguenze sono facilmente immaginabili: il mare è fangoso e grigiastro, i pesci sono scomparsi e la spiaggia, un tempo ricca di vongole, è morta. Inoltre, l’alterazione dell’ecosistema ha favorito il proliferare di granchi – ribattezzati amaramente dai pescatori locali daesh (il nome arabo dell’Isis) «perché distruggono tutto» –, i quali costituiscono un ulteriore problema perché mangiano uova e pesci, impedendo alle altre specie – già scarseggianti – di riprodursi (il golfo di Gabès era invece conosciuto per la sua eccezionale biodiversità marina). Oltre a questo, sono stati registrati l’aumento di problemi di salute, prevalentemente respiratori, nella popolazione, e la diminuzione impressionante delle risorse idriche.
Dopo la rivoluzione del 2011, che ha posto fine alla dittatura di Ben Ali, gli abitanti hanno iniziato a organizzarsi in associazioni (durante il regime l’associazionismo era vietato) per provare a risolvere i problemi: le malattie aumentano, agricoltura e pesca – le principali attività economiche – sono seriamente compromesse dal disastro ambientale. Se da un lato il gruppo chimico si è dichiarato più volte disponibile a trovare soluzioni, chi sembra disinteressarsi completamente del problema è il governo tunisino: sono state proposte alcune soluzioni assurde (spostare la fabbrica) o inverosimili (chiuderla); inoltre non esistono studi scientifici approfonditi che dimostrino la correlazione tra la gli scarichi e le conseguenze sull’ambiente e sulla salute degli abitanti.
Nel 2015 l’Unione europea ha finanziato un progetto di governance ambientale per potenziare strumenti e attori del territorio, così da coinvolgerli nella gestione della situazione, sviluppato su quattro assi: studio dell’impatto ambientale e sociale del Gct; promozione di attività di responsabilità sociale d’impresa; attività di concertazione per gestire la priorità ambientale; sostegno economico a progetti locali. Fra questi si inserisce Cigen (Citoyenneté pour une gouvernance environnementale à Gabès) della Ong bolognese Cefa Onlus, che da anni lavora in Tunisia (si veda anche quest’altro progetto). Cigen, concluso nel 2018, ha sviluppato attività di formazione e sensibilizzazione su tematiche ambientali per associazioni locali e per la popolazione, soprattutto per studenti e giovani. Il progetto si è concentrato prevalentemente sulla carenza di risorse idriche e sull’inquinamento marino e ha prodotto due output: un manuale con dati ambientali fruibile dalla popolazione e il documentario Tout va bien Lella?, della regista Rabeb M’barki, originaria di Gabès.
Il documentario, selezionato tra gli altri all’edizione 2019 del Bbc Arabic Festival, è una fotografia della drammatica situazione. «Il paesaggio oggi è in bianco e nero», dice uno dei protagonisti – pescatori, attivisti, cittadini – e tutto il film è un parallelismo amaro tra come era e come è oggi il golfo, descrivendo le conseguenze sociali e ambientali delle attività di scarico. La domanda che sorge è spontanea: fino a quando l’interesse economico sarà anteposto alla salute delle persone e alla salvaguardia dell’ambiente? Quante Gabès, Taranto, e altre situazioni analoghe dovranno susseguirsi prima che ci si renda conto che il territorio è una risorsa?
La città tunisina, oltre a essere unica al mondo perché sviluppatasi in una grande oasi che si affaccia sul mare, a differenza di tutte le altre che sorgono nel deserto, è in una posizione strategica: di fronte a Djerba, a pochi chilometri da Matmata e alle porte del Sahara. Non sarebbe stato preferibile potenziare le specificità della zona, magari in un’ottica di turismo e sviluppo sostenibile? Non sarebbe stato meglio gestire gli scarichi in modo più attento? Ovviamente sono domande senza risposta e probabilmente è troppo tardi per intervenire. La magra consolazione è che progetti come Cigen agiscono sulla popolazione: con un’attenzione particolare ai giovani, tramite l’educazione ambientale, la conoscenza del proprio territorio e delle sue potenzialità, li rendono partecipi della gestione e salvaguardia del proprio ecosistema. La speranza è che le generazioni future siano più intelligenti nella tutela dell’ambiente. Prima che sia davvero troppo tardi per tornare indietro.
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Le immagini: una foto che lascia intravedere, sullo sfondo, la fabbrica del Group Chimique Tunisien (Gct) e la locandina del documentario Tout va bien Lella? della regista Rabeb M’barki.
Elena Giuntoli
(LucidaMente, anno XIV, n. 158, febbraio 2019)