Il movimento pro-life, nell’anniversario della Legge 194 del 1978, esprime il suo dissenso con appariscenti manifesti che, però, generano solo ambiguità e confusione
Il 14 maggio scorso la capitale è stata punteggiata dai manifesti della campagna antiabortista di Citizengo. Si tratta di un movimento pro-life che si esprime contro aborto ed eutanasia. I cartelloni affissi (poi censurati e fatti togliere dal Comune di Roma) ritraevano il profilo di una donna incinta, con lo slogan: «L’aborto è la prima causa di femminicidio».
Di cosa stiamo parlando? La prima questione su cui interrogarsi è il significato dello slogan, perché non è così intuitivo. In che senso si pratica il femminicidio attraverso l’aborto? La spiegazione si trova sulla pagina Facebook del movimento, dove si discute dell’aborto selettivo praticato in alcuni Paesi, come l’India e la Cina, per controllare la nascita delle donne. E sono riportati dati che affermano che “muoiono”, se così si può dire, più donne in questo modo che per le violenze e gli omicidi commessi da uomini. È necessario richiamare la definizione di “femminicidio” che usa Citizengo e quella dizionariale, per un confronto. Il termine è un neologismo, la cui prima descrizione è riportata dal vocabolario Devoto Oli del 2009: «qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte» (Qui una esplicativa storia della nascita di questo termine). La definizione di Citizengo, invece, è questa: «la deliberata soppressione di un essere umano in quanto appartenente al sesso femminile».
Due concetti simili, che hanno in comune la donna come vittima. Se vogliamo parlare di violenza e umiliazione, ci sono in entrambi i casi. Il punto è che in Italia la legge sull’aborto non è stata fatta per controllare la nascita del sesso femminile, ma per dare la possibilità alla donna di scegliere se portare avanti o no la gravidanza senza che questo le costi la vita. La legge sull’aborto del 1978 è stata una conquista volta a limitarne la morte a causa delle pratiche clandestine.
Ciò che lascia dei dubbi è proprio l’associazione di una pratica come l’aborto selettivo alla legge fatta nello stato italiano. Perché? Che senso ha? In questo caso, le parole sembrano molto lontane dalla realtà che descrivono. «Citizengo ha come obiettivo sensibilizzare la gente sull’argomento», dice il portavoce Filippo Savarese. Che il dato sia vero o falso (qui la pagina del sito restituisce le sue fonti), ciò che non funziona è la completa decontestualizzazione di quanto riportato. Le parole del manifesto sono vuote e incomprensibili se comunicano una cosa al posto di un’altra. Le due categorie, “aborto” e “femminicidio”, non possono essere collocate in un discorso generico, quello dell’anniversario della Legge 194, se rappresentano un caso specifico di pratica, cioè l’aborto selettivo. Dietro al manifesto c’è una questione culturale che, sì, riguarda tutti, ma come può esso sensibilizzare se non fa capire a cosa una determinata parola si riferisce? L’espressione è ambigua e crea confusione. L’aborto selettivo rientra di diritto nella definizione di “femminicidio”, all’interno del quale l’uccisione riguarda solo un momento di un intero panorama di violenze volte a sminuire, degradare e cancellare la figura femminile (per altre considerazioni sul tema si può leggere qui).
Poi succede che si inizi a parlarne sui social e a firmare petizioni dietro uno schermo, quindi si pensa di aver raggiunto l’obiettivo di far discutere. Prima di tutto, però, va fatta chiarezza sulla questione. Altrimenti si stanno sfruttando due concetti molto delicati al solo fine di far interagire la gente comune (e i tanti, troppi, Napalm51 di Maurizio Crozza) su un social. E allora c’è da chiedersi quanto di reale ci sia in tutto questo e forse anche se c’è da ridefinire il concetto di sensibilità.
Roberta Antonaci
(LucidaMente, anno XIII, n. 150, giugno 2018)