Un racconto sulla liberazione d’Italia e la vita nelle vecchie campagne d’Emilia
Christian Corsi è un validissimo, anche se saltuario, collaboratore di LucidaMente. Lo scritto che, in occasione dell’anniversario della Liberazione, riproduciamo di seguito, è stato già pubblicato in AA.VV, Racconti emiliani, Volume I, a cura di Atefano Andrini, Historica Edizioni, Cesena, 2017. Ringraziamo la casa editrice romagnola per la gentile concessione.
Con l’atteso arrivo di un delicato sole di primavera, quel pomeriggio Ferruccio stava iniziando il suo ristoro all’ombra di un acero campestre. Davanti a lui, grande e regolare, si distendeva il canapaio a cui ormai da un po’ di tempo tanto lavoro dedicava ogni giorno.Meno di un mese prima, infatti, aveva provveduto da solo alla semina; ora, trascorsi i giorni delle ronde e degli spaventapasseri da agghindare a dovere, finalmente le prime piantine iniziavano ad affacciarsi dalla bruna terra, le stesse che un domani – dopo altro lavoro – sarebbero diventate tessuti e spaghi.
La guerra, tra tutte le cose che ormai si era portata via, non era ancora riuscita a strappare alle generose campagne d’Emilia i riti e le abitudini che le erano propri. E nemmeno aveva portato via a Ferruccio il papà: era a casa, e lì doveva starsene con dolori dappertutto. Erano reumatismi, almeno così diceva il medico, il “dottore”, che una sola volta in un anno era venuto a visitarlo.Parcheggiata l’automobile sul ciglio della lunga via Modena, aveva fatto ingresso in casa quasi alla maniera dei soldati tedeschi, fiero e senza troppo annunciarsi. Subito accolto dalla mamma di Ferruccio, le aveva consegnato cappello e capparella, per poi mettersi a compiere il proprio dovere: dieci minuti di domande e palpazioni, indicazioni di riposo assoluto e la consegna di un bottiglione di vetro con uno sciroppo misterioso; ed era di nuovo in auto, di ritorno al paese.
Ferruccio, ancora ragazzino, si era così trovato a proseguire il lavoro nei campi, nella casa, nella stalla, a doversi arrangiare in ogni attività per la quale fino ad allora aveva solo prestato aiuto. A sostenerlo, la sola forza dei consigli dei genitori e delle proprie braccia non tanto abili e robuste. Ad aiutarlo, solo la madre, nei rari momenti in cui non era impegnata presso una piccola maglieria del paese. Sua sorella, invece, era ancora troppo piccola; per ora il suo mondo doveva rimanere quello delle sue due sole e spelacchiate bambole, con le quali amava giocare per gran parte del giorno.
Quel pomeriggio, steso sul manto d’erba e coi rami dell’acero a vegliarlo, Ferruccio volgeva il suo sguardo all’orizzonte tra mille forme di nuvole bianche. All’improvviso, un ronzio iniziò a diffondersi nell’aria, diventando in breve tempo riconoscibile. Ferruccio sapeva bene di cosa si trattasse; era un suono che gli era divenuto familiare. Preannunciava la visita di un “pippo”, o di una “cicogna” – così venivano chiamati più o meno tutti gli aerei militari che transitavano nei cieli. Con due motori e le altrettante lunghe code, uno di questi si stava ora avvicinando da sud, diretto verso un qualche ignoto obiettivo.Poteva essere un velivolo degli Alleati, un ricognitore; ma anche un bombardiere. Di solito passavano però la sera, poco prima che facesse buio pesto. La campagna quasi mai veniva sorpresa dalle bombe, ma per precauzione, come tutte quante le altre, la famiglia di Ferruccio e quelle lì vicine avevano già da tempo approntato un piccolo rifugio, che si trovava a un centinaio di metri dalle loro case.
Tuttavia, dinnanzi al volo di quell’aereo, il ragazzo non avvertì l’urgenza di alzarsi, di mettersi a correre a perdifiato tra i campi per raggiungere quel più sicuro luogo, di tapparvisi dentro con la paura di udire da un momento all’altro il tuono, il fragore, l’esplosione della terra… e poi le grida. Fidandosi di una sensazione pressoché immotivata, rimase qualche minuto a osservare l’aereo che faceva avanti e indietro nel cielo, apparentemente senza preoccuparsi del potenziale pericolo. Eppure, ci si sarebbe potuti attendere anche una scarica di mitragliatrice.
Quando poco dopo l’aereo si fu allontanato definitivamente, Ferruccio si levò in piedi, convintosi a rincasare. Guardando però ancora una volta davanti a sé, il tempo di un attimo, prima di voltare le spalle alla campagna, si arrestò desistendo dalla sua intenzione. C’era qualcosa, là in mezzo al campo di grano che si stendeva a sud poco oltre il canapaio quasi brullo. Alcune spighe, spostandosi e agitandosi, come urtate, lasciavano intravedere alcune figure. Non erano animali; l’altezza, le movenze, oltre al capo tondeggiante che a tratti rifletteva i raggi del sole, subito suggerirono a Ferruccio una certezza: erano soldati, e avanzavano.Dopo un’esitazione non più lunga di qualche secondo, prese a correre. Con sempre più lunghe falcate si lasciava alle spalle quel campo, diretto come un fulmine verso il rifugio la cui entrata – una botola piazzata in mezzo al manto erboso – già iniziava a scorgersi. Nel frattempo, il trotto del cuore sembrava sospingere nei pensieri di Ferruccio speranze e paure ancora incerte e senza forma; ma egli già sapeva che quelli non erano Tedeschi.
Arrivato in un baleno davanti al rifugio, si arrestò mettendosi ad ascoltare il proprio respiro affannoso, il martellare del cuore nel petto, e sentendo crescere dentro di sé l’ansia per un inaspettato proposito che sentiva di poter compiere.Afferrò la maniglia della botola, tirandola poi con forza per scoperchiare il pertugio che conduceva alla galleria. Tuttavia, non ci si infilò. Non voleva rinchiudersi dentro a quella buca aspettando col cuore in gola che quei soldati passassero oltre o, peggio, che fossero loro a trovarlo rintanato e inerme.
Entrò nel rifugio solo per afferrare uno straccio bianco che giaceva in un angolo insieme ad altre povere cose lasciate lì alla rinfusa. Tenendolo saldamente in mano, aspettò di vedere comparire di nuovo all’orizzonte le sagome in avvicinamento; ma dopo nemmeno un paio di minuti l’attesa gli era già insopportabile. Forse nessun soldato stava avanzando nella sua direzione; probabilmente erano andati dritti verso la casa, mentre lui se n’era scappato da un’altra parte.Ferruccio si fece allora coraggio. Consapevole che il futuro non avrebbe badato ai suoi timori, sempre con il cencio bianco pronto a sventolare in segno di resa, iniziò a ripercorrere i suoi passi per andare incontro ai visitatori insperati.
L’indomani, all’alba del 22 di aprile del 1945, le truppe angloamericane, che già avevano liberato Bologna, presero ufficialmente in custodia San Giovanni in Persiceto e i paesi limitrofi. Un ragazzo era fin da prima lì con loro, a guidarli attraverso le campagne nell’avanzata finale verso la liberazione.
Christian Corsi
(LucidaMente, anno XIII, n. 148, aprile 2018)