Disoccupazione tecnologica: cosa accadrà nel futuro? Non è un fenomeno nuovo, ma stavolta sembra non lasciare spazio all’ottimismo della conversione e della riottimizzazione
Il problema della sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine risale almeno alla prima rivoluzione industriale. Oggi, anche in Italia, con l’incipiente automazione/informatizzazione totale della produzione – la cosiddetta “Industria 4.0” –, sembra stia crescendo l’attenzione nei confronti del potenziale pericolo della disoccupazione tecnologica.
In passato alcuni pensatori economici eterodossi,tra i principali Karl Marx e John Maynard Keynes, profetizzarono in forme diverse la progressiva perdita di posti di lavoro – insieme alla caduta del tasso di rivalutazione del capitale – a causa della meccanizzazione, vedendovi uno degli elementi catalizzatori della crisi del capitalismo. Gli economisti classici, al contrario, tradizionalmente fanno rientrare tale fenomeno nel normale ciclo dell’economia di mercato, che si riottimizza continuamente attraverso frequenti conversioni della produzione, oscillazioni di prezzi e perdita di alcuni posti di lavoro rimpiazzati poi da altri. Secondo quest’ultima visione, quindi, la disoccupazione dovuta all’innovazione è sempre temporanea e circoscritta; si tratta solo di attendere che le persone, com’è sempre accaduto in passato, apprendano i mestieri del futuro. Fino al XX secolo, effettivamente, è andata così.
C’è però chi sostiene che il paradigma sia già cambiato; d’ora in poi non sarà più facile come un tempo ricreare il lavoro distrutto dalle nuove tecnologie. Riccardo Staglianò, nel suo recente Al posto tuo: così web e robot ci stanno rubando il lavoro (Einaudi, pp. 256, € 18,00), racconta di un mondo in cui le macchine, più che alleggerire i compiti dell’uomo, stanno progressivamente rendendo quest’ultimo superfluo. Invece di coinvolgere i lavori da colletto blu, come in passato, l’automazione sta ponendo le basi per l’eliminazione di diversi impieghi da colletto bianco, o che volentieri terremmo per noi.
La corsa verso la riduzione dei costi e l’aumento della produttività, se veicolata attraverso l’utilizzo indiscriminato della rete e dei robot, sembrerebbe condurre a una prospettiva di crescita senza occupazione (un trend a quanto pare in atto fin da prima dell’avvento della crisi economica). Alla luce di alcuni progetti sperimentali, tra cui automobili senza pilota e forme di intelligenza artificiale sempre più sofisticate, in un futuro prossimo potrebbero così risultare inutili non solo addetti alla logistica e ai trasporti, ma anche assicuratori, traduttori, preparatori di dichiarazioni dei redditi e persino farmacisti e radiologi. Il nodo della questione, oggi, sta però negli intenti spesso evidenti di alcuni colossi del digitale e della robotica, come Amazon o Fanuc, i quali, per annientare la concorrenza, arrivano a sognare e prefigurare l’espulsione dell’uomo dal loro ciclo di produzione e, incidentalmente, dal mondo del lavoro.
Una delle possibili azioni per prevenire questa temuta emorragia occupazionale consisterebbe nel tassare il lavoro dei robot al pari di quello umano, una proposta formulata di recente nientemeno che da Bill Gates, che grazie all’innovazione informatica è divenuto l’uomo più ricco al mondo. In ciò vi è un’evidente logica; ma che ne sarebbe così dell’impiego di conoscenze, degli investimenti e delle risorse umane che stanno dietro allo sviluppo tecnologico? Farebbero la stessa fine delle professioni che in questo modo si vuole salvaguardare e che altrimenti scomparirebbero.
Per quanto riguarda l’Italia, la tendenza è finora contraria: nella Legge di stabilità 2017 sono previsti ingenti agevolazioni fiscali per le imprese che investono in beni ad alta tecnologia. È tuttavia difficile pensare che i governi possano incidere realmente sull’andamento del fenomeno descritto, in un senso o nell’altro. Sarebbe già tanto se riuscissero a impedire situazioni di eccesso e di monopolio – cominciando col far pagare le giuste tasse alle gigantesche piattaforme di servizi alternativi a quelli tradizionali, che contribuiscono a sbriciolare – e ad arginare la disoccupazione e la caduta dei redditi causata dall’uscita di tanti lavoratori dai consueti confini tracciati dalle tipologie di rapporto di lavoro e dalle relazioni industriali.
Quanto a noi, come singoli lavoratori, spetta riconoscere l’importanza del maturare e del rimodulare frequentemente le competenze – sperando nel frattempo che nel lungo periodo l’Industria 4.0 si riveli vantaggiosa per tutti. Come singoli consumatori, invece, restiamo in possesso di un potere più immediato, sebbene piccolissimo: quello di non lasciarci orientare sempre e unicamente dalla comodità, dalla moda e dalla convenienza immediata. Lo spazio economico è troppo prezioso per essere lasciato ai pochi.
Christian Corsi
(LucidaMente, anno XII, n. 135, marzo 2017)