Tra comportamenti sleali, tangenti e doping, stiamo assistendo a un progressivo decadimento dei valori sportivi
«Essere, o non essere, questo è il dilemma». Conquistare la fama, con qualsiasi mezzo, o rischiare di cadere nel dimenticatoio della mediocrità? Se Amleto, nell’omonima opera di William Shakespeare, prima di “agire” è attanagliato dal dubbio esistenziale del vivere o morire, dell’essere o non essere, lo sportivo professionista contemporaneo, prima di prendere decisioni riguardanti la propria carriera, sembra non porsi alcun interrogativo etico, neppure il più basilare. Lo sport di oggi è frutto della società del “tutto e subito”, della gloria a ogni costo.
Lo sport, da puro spettacolo ricco di colpi di scena, si è trasformato in uno spettacolo ricco, e basta. I colpi di scena ci sono ancora, ma programmati a tavolino. Da quando l’attività sportiva è diventata un mestiere remunerato secondo le regole del mercato, gli atleti hanno assunto le vesti di supereroi: contratti milionari, bonus al raggiungimento di determinati obiettivi, premi partita, sponsor e chi più ne ha più ne metta. Le star sono sui social, in tv, ospiti nei locali alla moda e in svariate trasmissioni televisive che, magari, con lo sport non hanno nulla a che fare. Come attori a teatro, vendono la propria performance al migliore offerente (e tanto meglio se questo sia un bookmaker), protagonisti di una parte già studiata, senza attaccamento alla causa né passione alcuna e, calato il sipario, eccoli a ricevere il lauto compenso pattuito, che essi siano stati vincitori o perdenti. Sono solo affari, business in cui, gli atleti, soffrono il fascino del “Dio Denaro”, male principale nello sport odierno.
I soldi, i troppi soldi, generano quel processo di alienazione che coinvolge tutti in questo mondo: il semplice spettatore, pronto a scommettere contro la propria squadra del cuore se la “posta in gioco” è tanto allettante quanto sicura, e il giocatore professionista, colui che, la partita in questione, dovrà giocarla. «Mi offrirono duecentomila dollari per sistemare un match – svela Novak Djokovic, numero uno del ranking Atp, dopo la bufera che ha coinvolto il tennis – era il 2007, durante un torneo a San Pietroburgo un ragazzo ha provato a contattare il mio entourage». Quello del tennis è solo il più recente scandalo a proposito di scommesse clandestine: 16 giocatori, piazzatisi nelle prime 50 posizioni del ranking Atp, sono sospettati di aver truccato partite in tornei del Grande Slam (Wimbledon e Roland Garros su tutti). La corruzione, dopo i ciclici sconvolgimenti nel calcio, ciclismo e atletica, sembra non risparmiare sport alcuno (vedi anche Campioni senza valore; La morte del calcio, tra urla e birignao; Schwazer default; Trent’anni di scandali nel football italiano).
L’elusione dell’azione “lecita” crea un circolo vizioso dal quale uscire è impossibile, se non con un nuovo scandalo sui media. Numerosi sono i venti che muovono il tornado della corruzione. Uno su tutti, forse il più potente, è lo sponsor. La visibilità, mediatica e non, che un evento sportivo garantisce diventa terreno di scontro tra i vari brand,i quali, una volta accaparratosi lo spazio pubblicitario, incidono e decidono sulle future mosse strategiche di una società, di un singolo giocatore o di un’associazione, causando conseguenze in tutto l’ambiente circostante. Basti pensare alle dimissioni dell’ex presidente della Fifa, Joseph Blatter, avvenute non in seguito allo scandalo mondiale che il 27 maggio dell’anno scorso ha investito la Federazione internazionale di calcio, ma solamente sei giorni dopo, quando marchi come Visa, Coca Cola e Mc Donald’s espressero il loro dissenso su quanto successo, preoccupati che la reputazione dello sponsor potesse essere macchiata dai giudizi che tutto il mondo stava esprimendo sulla questione. A rischio non c’era solo il nome delle multinazionali, ma il 30% del fatturato della Federazione con sede a Zurigo.
Il pericolo è quello di perdere la concezione di “purezza” dello sport, la stessa che ci portiamo dietro dall’antica Grecia e che ci ha fatto amare questa attività. Grazie al sano agonismo, lo sport è luogo di crescita e maturazione, di socializzazione, gratificazione interna e moralità. Moralità che ci illudiamo di trovare oggi in uno spettacolo sportivo, seduti sul divano davanti alla tv “delle pubblicità”, tifando per la nostra squadra, con in mano una scommessa sportiva e una bibita di un famoso brand. Parafrasando, ancora, l’opera di Shakespeare: «Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione»… e perdono il nome di sport.
Francesco Tavella
(LucidaMente, anno XI, n. 122, febbraio 2016)