Il 25 aprile scorso una scossa di magnitudo 7.8 ha sconvolto il Paese asiatico. Per riportare l’attenzione su un dramma che pare dimenticato, abbiamo intervistato in esclusiva per “LucidaMente” la viaggiatrice Raffaella Milandri, che si è recata di persona in quei luoghi documentando la situazione
A pochi mesi dal terribile terremoto che ha sconvolto il Nepal, causando migliaia di morti, in Occidente la tragedia sembra essere stata dimenticata. E se i media ne hanno parlato già a suo tempo con il contagocce, adesso pare un fatto lontano, addirittura mai accaduto, mentre dalle macerie i nepalesi, con il loro modo di essere semplice, dignitoso e fiero, non implorano aiuto, pur avendone bisogno.
Una devastante scossa di 7.8 gradi della scala Richter a nord-ovest della capitale Kathmandu, il 25 aprile 2015, ha dato avvio ad altri violenti eventi sismici, da quello di magnitudo 6.6, immediatamente successivo al primo, fino al 7.4 del 12 maggio. Un terremoto, nel suo insieme, senza precedenti dal 1934. Valanghe sul monte Everest; la città di Kathmandu sollevata di un metro; templi ed edifici secolari, tra i quali la torre Dharahara, patrimonio Unesco, sbriciolati. E, soprattutto, più di ottomila morti e circa diciottomila feriti. Per capire lo stato attuale delle cose e comprendere il perché non se ne sia più parlato, abbiamo intervistato in esclusiva per LucidaMente la scrittrice e viaggiatrice solitaria Raffaella Milandri, impegnata su diversi fronti umanitari (vedi Caccia alle “streghe” in Papua Nuova Guinea), che si è recata di persona nei luoghi del sisma. Una toccante testimonianza da parte di chi ha osservato con i propri occhi un Paese in ginocchio, corredata da filmati inediti delle città più colpite e da un appello per inviare aiuti.
Raffaella Milandri, grazie per essere nostra ospite. Lei conosceva già il Nepal e la sua gente. Che cosa l’ha spinta a tornarci subito dopo l’impatto devastante del recente terremoto?«Viaggiare non vuol dire conoscere luoghi ma percepire l’animo dei popoli. E quello nepalese è un popolo fiero, dignitoso e anche estremamente schietto e onesto: la fratellanza tra le religioni induista e buddista crea una rara armonia e un profondo rispetto umano. Paese posto tra i popolosissimi colossi industriali di Cina e India, il Nepal ha sempre avuto un carattere autonomo, capace di resistere a forti pressioni economiche e politiche, senza essere mai sottomesso né colonizzato. Tornando alla sua domanda, l’amore per un popolo che mi ha dato tanto in termini umani andava ricambiato, subito. Non è giusto viaggiare come “vampiri”, succhiando lo spirito di un Paese senza poi sentirlo proprio; aiutarlo vuol dire sentirsi parte di esso, amarlo significa essere pronti a vederlo nell’aspetto più spoglio e nelle rovine coperte di polvere. Vuol dire portare un sorriso laddove se ne sono ricevuti tanti».
Quali zone ha visitato?«Ho viaggiato per il Nepal più volte, in lungo e in largo, partendo dall’estremo ovest del Terai fino all’estremo nord, ai confini con il Tibet. Forse è proprio Kathmandu, la grande città, il luogo che ho esplorato meno, dove i costumi occidentali rivestono di globalizzazione le tradizioni millenarie di un popolo».
Una volta arrivata in Nepal, che tipo di situazione, umana e materiale, ha trovato?«Onestamente, al di là dei campi di sfollati con tendoni recanti le insegne di un Paese o di un altro tra quelli che hanno fornito i primi soccorsi, gli aiuti concreti si sono presto diradati. La zona a nord della valle di Kathmandu mi ha offerto immagini di cittadine rase completamente al suolo, mentre altre come Patan e Bhaktapur mi hanno fatto piangere il cuore di fronte a cumuli di pietre che una volta erano stupendi monumenti. Umanamente? Tanto dolore per le vittime. In ogni paese c’era un cartellone con le foto dei morti. Anch’io mi sono messa insieme ai nepalesi a cercare − sperando di non trovarli − i volti di alcuni amici. Loro, comunque, non perdono tempo a commiserarsi. Tanta voglia di ricostruire, di ricominciare, fluiva dai visi di ciascuno. Senza cercare pietà. Sono pronti a rimboccarsi le maniche per recuperare anche quel poco che, soprattutto nelle realtà rurali, costituisce il tutto».
Che cosa, o chi, l’ha colpita in particolare e perché?«Bambini, giovani, anziani, uomini e donne di ogni età: tutti a scavare tra le macerie, a lavorare duro con il sudore sulla fronte ma senza lamenti. Sono persone piene di dignità, con lo sguardo già rivolto al futuro. Hanno veramente molto da insegnare. E un sorriso facile a riaffiorare sui visi sporchi di polvere. Ho poi notato la totale assenza di viaggiatori. Mi appello al turismo internazionale: tornate in Nepal, o alla catastrofe del terremoto si aggiungerà anche quella economica!».
Lei instaura legami particolari con la gente che incontra in viaggio e in Nepal ha prodotto un paio di video. Che cosa significa affrontare a mente fredda una simile sciagura? Come ha fatto a calarsi nei panni della documentarista senza lasciarsi travolgere dallo sconforto?«Quando si fa qualcosa per gli altri si possiede sempre una forza superiore. Ho lavorato senza tregua, camminando tra macerie e calcinacci, anche rischiando la vita. Tornata in Italia, ho montato i filmati [i link per visualizzarli sono in calce all’articolo, ndr] e ho cercato di rendere l’idea di che cosa sia il nord del Nepal adesso. E di divulgare le immagini dei bambini nel distretto di Kavre, che vogliono la loro scuola come un tempo. Solo quando ho terminato tutto, durante la prima proiezione pubblica del filmato, mi sono davvero commossa. E avrei subito voluto tornare da loro. Cosa che, tra l’altro, spero di fare prestissimo».
Secondo lei, perché la notizia di questa tragedia si è “sgonfiata” così presto? Attraverso gli organi di informazione altri terremoti o tsunami, ugualmente devastanti, hanno lasciato il segno nell’opinione pubblica…«La situazione geopolitica del Nepal ha creato contrasti anche tra le nazioni che portavano soccorsi e lo stesso governo non ha gestito diplomaticamente la situazione: per esempio, a maggio molti aiuti sono stati bloccati in dogana e all’aeroporto. Stiamo parlando di un Paese chiuso, arroccato tra Cina e India − dalle quali subisce a volte pressioni politiche − spesso instabile, soggetto a scioperi e sommosse. Proprio poche settimane fa i miei corrispondenti mi dicevano che il Nepal è rimasto letteralmente a piedi in quanto l’India ha bloccato gli approvvigionamenti di carburante. Comunque, sul non divenire un vero e proprio “caso mediatico”, credo abbia influito la dignità stessa degli abitanti, che non hanno implorato aiuto e non hanno offerto alla stampa internazionale immagini di disperazione, bensì di estremo contegno. Non hanno cercato di essere compatiti. Ma questo, ovviamente, è il mio punto di vista».
Una volta tra le macerie, che cosa ha fatto per rendersi utile?«Tutto il possibile, con i contributi di denaro miei personali, con quelli dell’associazione Omnibus omnes, della quale sono presidente, e con i fondi raccolti in Italia prima di partire. Insieme ai ragazzi del Mirmire youth society (Mys), il gruppo giovanile locale con il quale ho stabilito una collaborazione, siamo andati a distribuire viveri e coperte nel nord del Paese. E poi ho cercato di documentare la situazione. L’informazione è sempre fondamentale. Occorre divulgare la verità. Ho cercato anche di distribuire sorrisi e speranza, che sono stati bene accolti: i nepalesi sono un popolo tosto. Ma questo non ci esime dall’aiutarli».
Noi che cosa possiamo fare? È attivo qualche canale umanitario a sostegno dei terremotati?«Noi possiamo fare tanto. Ma è fondamentale farlo direttamente. Raccogliere fondi ed effettuare i bonifici alle associazioni in Nepal è la forma migliore in assoluto, perché così si aiuta anche l’economia locale, dal momento che si acquistano là le materie prime. Grazie alle mie conoscenze sono riuscita subito a identificare due gruppi fidati e molto attivi. In particolare il Mirmire youth society, che ho citato prima, è formato da un centinaio di studenti nepalesi che si danno davvero da fare. Per me è un privilegio lavorare con loro. Il primo obiettivo comune adesso è ricostruire una piccola scuola elementare, quella del filmato [in calce all’articolo, ndr]. Mancano solo pochissime migliaia di euro per raggiungerlo. E poi andiamo avanti, identificando di volta in volta le reali necessità del luogo».
L’associazione Omnibus omnes, italiana, e la Mirmire youth society, nepalese, chiedono di non dimenticare.Dopo un primo intervento a fine giugno 2015, con distribuzione di aiuti e soccorsi a 150 famiglie nel distretto di Kavre − documentato col video Mission in Nepal. After earthquake − il progetto di Omnibus e Mys è, come spiegato nell’intervista, quello di ricostruire una piccola scuola a Unanchas Kilo. Per informazioni, si può scrivere all’indirizzo e-mail info@omnibusomnes.org; gli estremi per donare sono i seguenti: Omnibus omnes onlus, iban IT65 M020 0824 4040 0010 3706 117. Il video Don’t forget Nepal, come il precedente curato da Raffaella Milandri, contiene immagini del terremoto, della scuola e dei bambini di Unanchas Kilo.
Le immagini: fotografie post terremoto di nepalesi tra le macerie; in alcune di esse è presente Raffaella Milandri, autrice degli scatti.
Maria Daniela Zavaroni
(LucidaMente, anno X, n. 119, novembre 2015)
…il Giornalismo dell’Informazione, della Memoria e dell’Azione solidale… Grazie, Maria Daniela.