“[Dis]occupazione giovanile. Italians do it better” è il titolo del reportage della fotografa Simona Hassan, che delinea il ritratto di un’Italia che resiste. Intervista in esclusiva per “LucidaMente”
Italia, oggi. L’incremento del tasso di disoccupazione giovanile, salito al 42,7%, l’esodo dei candidati in fuga dalle posizioni aperte di Expo 2015: due notizie recenti che, come vasi di Pandora, ci hanno riconsegnato in dote polemiche vecchie. Che la crisi crei disoccupazione lo sapevamo da tempo, che il problema sia atavico è sotto gli occhi di tutti, che la ricerca di soluzioni vada perseguita al di là di mere questioni economiche e di bilancio pubblico è evidente. Ma che si diffonda un atteggiamento ottuso e ostile verso parte della popolazione giovanile è il sintomo di una grave miopia.
In principio fu il tempo dei “bamboccioni”, poi venne quello dei fannullonie, infine, quello dei choosy. Nell’insieme si è gradualmente delineato un universo di etichette, percentuali e numeri che aiutano ben poco a comprendere l’essenza vera della questione. Poiché la realtà, per essere capita, va osservata e toccata con mano. Non tutti possono farlo, ma c’è sempre qualcuno che in certe circostanze sceglie di sobbarcarsi questo impegno. Simona Hassan, fotografa bolognese, ne è un esempio: a 25 anni ha intrapreso un viaggio lungo tutto lo stivale incontrando ragazzi e ragazze che hanno frequentato l’università e hanno creduto nel senso dei loro studi, giovani che hanno trasformato passioni in vere e proprie competenze, persone che hanno tentato di costruirsi un futuro nel mondo del lavoro all’altezza del percorso compiuto nel corso degli anni. Partendo da questo itinerario, portato a termine anche grazie ai fondi raccolti grazie a una campagna di crowdfunding, Hassan ha realizzato un reportage. [Dis]occupazione giovanile. Italians do it better è il titolo, a sottolineare che non si tratta di un percorso limitato al mondo della disoccupazione né tantomeno di un piccolo focus sulla realtà del lavoro giovanile.
È un lavoro che raccoglie le immagini e le parole dei ragazzi incontrati lungo la strada. È un percorso fatto di racconti. Non ci sono storie a senso unico ma testimonianze che riportano pezzi di vita vera, con i suoi lati positivi e negativi. Non esistono etichette, ragazzi occupati o disoccupati. Ci sono giovani che lottano e che hanno lottato. Alcuni di loro hanno corso per raggiungere un traguardo e l’hanno tagliato, altri hanno creduto in un sogno, lo hanno realizzato per poi vederlo svanire ma senza smarrire la tenacia necessaria a rimboccarsi le maniche per ricominciare a combattere. E, poi, giovani ancora legati alla paghetta dei genitori, necessaria a far fronte a buona parte delle spese, fra affitti, bollette, benzina.
Ci sono ragazzi sospesi a metà fra sconforto e speranza e persone che a trent’anni un traguardo devono ancora raggiungerlo. È la storia di un’Italia, di una delle tante. È un racconto di un’Italia che vive e che per questo lotta per tenere alta l’asticella della propria dignità. Di certo molti dei protagonisti possono ritenersi fortunati (e non è una colpa) per riuscire a dare perlomeno una forma alle loro aspirazioni: nel nostro Paese si susseguono anche le storie di chi perde tutto senza trovare la forza di reagire. [Dis]occupazione giovanile è una storia vera che parla di persone che resistono, ed è rivolta al futuro. Non c’è il lieto fine, ma non ci sono neanche le lacrime. Abbiamo incontrato Simona e chiacchierato con lei a proposito del suo reportage.
Simona Hassan, tu hai girato l’Italia per incontrare tanti ragazzi e, una volta tornata a casa, ne hai raccontato le storie. Insomma, un lavoro non da poco. Che cosa ti ha spinto a prendere la macchina fotografica e a partire?«Era il 2013 e mancava poco alla mia laurea, stavo concludendo un percorso che mi avrebbe catapultato presto su una strada molto più difficile da intraprendere. Io ho sempre creduto e sperato di poter fare nel mondo del lavoro qualcosa che mi piacesse. Gli attacchi che arrivavano dai giornali, dalle televisioni e dalle istituzioni minavano le fondamenta di questa mia speranza. È maturato, si sa, un pregiudizio di fondo sui giovani, tacciati di essere choosy o, peggio ancora, fannulloni. Ho sentito il bisogno di accostare questa mia visione personale a quello che accadeva fuori: il discredito di cui parlavo da una parte, l’impegno di tanti ragazzi per riuscire a realizzare i loro sogni dall’altra. Se io credo di poter concretizzare un giorno quello che veramente mi piace, non mi illudo di essere l’unica. Così ho avvertito l’esigenza di raccontare una storia o, meglio, più storie. Il mio reportage è costruito per intero su dialoghi e chiacchierate che ho avuto il piacere di fare con ragazzi e ragazze di tutta l’Italia. Partendo naturalmente da Bologna, la città universitaria per eccellenza, e lasciando anche molto spazio alle immagini. Le mie precedenti esperienze mi avevano fatto capire che la fotografia è un ottimo mezzo per raccontare le cose. Per cui mi sono chiesta: “perché non uso l’obiettivo per raccontare quello che vedo veramente?”».
Tantissime foto di ragazzi e di ragazze, tante “cartoline”, come tu stessa le hai chiamate, ma anche molte conversazioni, trascritte e registrate…«Da quando fotografo le parole sono state sempre complementari alle immagini, sia quelle scritte da me, sia quelle che caratterizzano un dialogo o un racconto. Per esempio, sul sito che ospita il reportageè possibile ascoltare le registrazioni delle conversazioni che ho fatto con i ragazzi che ho incontrato per realizzare [Dis]occupazione. Ho organizzato anche una presentazione nel corso della quale queste testimonianze sono state fatte ascoltare al pubblico».
È stato difficile trovare i fondi con il crowdfunding?«Non posso dire che all’inizio sia stato facile, visto che ero da sola e avevo poca esperienza. Poi le cose hanno cominciato ad andare per il verso giusto. Ho avuto anche un pizzico di fortuna, lo devo ammettere. Ho scelto la piattaforma Vizibol o, meglio, mi hanno contattato loro e io mi sono fidata. Al tempo Vizibol era una realtà nuova e aveva bisogno di dare uno slancio alla sua attività. Le necessità erano quindi comuni: anche il mio progetto era ancora alle fasi iniziali. L’aiuto del personale di Vizibol è stato fondamentale. Per dirla in parole povere, si trattava di “chiedere soldi” e di farlo sul web, cosa assolutamente non facile di questi tempi. In più, per definizione il crowdfunding nasce per essere un’operazione collettiva e io credo che le storie raccontate appartengano alla comunità. Fare affidamento su questo meccanismo ha avuto quindi un suo senso proprio in relazione al lavoro itinerante che avrei svolto al termine della raccolta dei fondi. Del resto, qualcuno si è rivisto in quello che ho narrato e si è sentito meno solo, qualcun altro ha colto la palla al balzo e ha cominciato a lottare».
[Dis]occupazione racconta le vicende di ragazzi e ragazze che credono in quello che fanno. A volte si sono disillusi, ma spesso ce l’hanno fatta, pur dovendo continuare a resistere di fronte alle problematiche della realtà. Per te ha senso lottare?«Ci sono giovani che sono alle prese con i lenti e faticosi processi che comporta la nascita di un’attività: il pagamento degli affitti, dei servizi, la burocrazia e quant’altro. Molti invece finiscono in una condizione che li porta a rinunciare a certi obiettivi o sogni. Molti altri no. Il Paese è pieno di ragazzi che riescono a guardare sempre il lato positivo. Per me ha certamente senso lottare e la speranza è davvero l’ultima a morire. Alla fine è quello che ho cercato di raccontare: belle storie di gente attiva, di ragazzi e di ragazze che guardano il lato positivo in ogni situazione».
L’iniziativa della nostra intervistata ha suscitato molto interesse mediatico. Anche presso L’Huffington Post, che le ha dedicato il servizio I volti della disoccupazione nelle foto di Simona Hassan.
Le immagini: in home page Simona Hassan; all’interno dell’articolo alcune foto del suo reportage [Dis]occupazione giovanile. Italians do it better.
Enea Conti
(LucidaMente, anno X, n. 113, maggio 2015)