Il 17 gennaio di 73 anni fa nasceva il pugile Cassius Clay. Istrionico, talentuoso, controverso, è stato icona ben al di fuori del ring
Uno degli sport più diffusi è l’ossequio ai vip trapassati. Cassius Marcellus Clay, alias Muhammad Ali, nato il 17 gennaio del 1942 a Louisville, Kentucky, non è ancora tra questi, ma ha ottenuto dal mondo la stessa indulgenza che si deve a chi abbandona in silenzio una scena fastosa. Il suo corpo ha visto la bellezza, i pugni della vita, la malattia: normale che ora si guardi a lui come a un intoccabile, una specie di profeta al quale molto è stato dato e tolto durante il percorso verso una presunta saggezza. Fatta di sbruffonate, jab al volto, ideologie masticate, preghiere mute.
La storia cominciò con una bici rubata, un ragazzino che si lamentae il paterno consiglio di un poliziotto di iniziare con la boxe. Era ben vivo il mito di Joe Louis, il pugile che aveva sconfitto tutti, anche i nazisti, e racimolato l’approvazione condiscendente degli americani bianchi senza smettere di dover girare al largo dai ristoranti più belli di Miami. Venticinque anni dopo Muhammad Ali poteva entrarci in pompa magna con un codazzo di reporter, un’amante, uno stuolo di parassiti. Non sapeva se avrebbe retto un altro match come quello con Joe Frazier a Quezon City (nelle Filippine), o se il tizio del Times di fronte a lui avesse notato che i colpi non erano rapidi al pari di una volta. Ma il presente era ancora suo, il mondo era ancora suo. E allora non costava fatica rispondere, con gli occhi ridenti: «Io sono il più grande».
Era, senza dubbio, il più furbo. Fosse combine o meno, il pugno fantasma a Sonny Liston è stata una marachella propiziata da muscoli e riflessi, quasi lo scherzo di un bambino che tira un piccolo sasso alla finestra e poi dice: «Non sono stato io, è stato il diavolo!». Nessun peso massimo aveva mai combattuto così. Quel corpo di quasi un quintale saltellava, schivava, irrideva, demoliva. Da sempre mollare pugni era sinonimo di rabbia cieca, di greve lotta per l’esistenza. Poi arrivò questo qui, che parlava fin troppo, sfotteva in rima l’avversario, si lasciava inseguire sul ring e affondava il colpo con l’aria di chi si degnava. Gli occhi della folla, prima scettici, divennero in seguito complici. Chi altri riusciva a picchiare giocando?
A molti è piaciuto sostenere che il suo passaggio alla fede musulmana, nel 1964, fosse maturato da una riflessione profonda, consapevole. C’è da dubitarne. La Nation of Islam, piena di ardore settario e povera di dottrina, trovò in questo avvenente bullo dall’eloquio torrenziale il suo uomo copertina; a Clay, d’altro canto, piacque rifugiarsi in un’organizzazione che ne assecondava l’ego ipertrofico più di quanto potesse fare il dibattito sui diritti civili. Ogni militanza regala una certa sicurezza, l’abitudine a sentirsi araldi di un’idea. Servì anche quella per rifiutarsi di andare in Vietnam, senza voler sminuire il libero arbitrio di un ragazzo che aveva rischiato di giocarsi la carriera perché nessun vietcong lo aveva mai chiamato “negro”. Presto i capricci bellicisti di una nazione si trasformarono in incubi e allora tornò comodo riabilitare chi se ne era chiamato fuori per scelta. Così, ciò che prima era un immorale atto narcisistico divenne, per molti, eroismo. Ali aveva perso il titolo, una barca di soldi, era stato emarginato dall’opinione pubblica e aveva urlato frasi a effetto contro la guerra. Bastava per essere puro.
Dimostrò di essere ancora il migliore di tutti a Kinshasa, in Congo, nel 1974. George Foreman era gigantesco e tremendo. Ali aveva già 32 anni, era alle corde e stava incassando di tutto, con guantoni e braccia a proteggere il viso. Roba da “pochi minuti e va giù”. Sicuro che ci va, non si possono prendere tutti quei pugni e stare in piedi. Invece lui ci resta, e quando l’avversario mostra segni di stanchezza per tutti gli attacchi portati, ecco che si scatena il ragazzo di dieci anni prima. Foreman capisce il trucco tardi e va al tappeto. Ulisse aveva battuto Aiace Telamonio. La folla si compiace di vedere nel vincitore un dio raccontato da antenati senza nome, e su quel ring africano il colonnello Kurtz di Cuore di Tenebra ha il corpo e il sangue del figlio di un pittore di insegne del Kentucky.
Poi il declino, l’ostinazione a continuare, figlia di chi si sente unico; Clay ha divorzi gravosi alle spalle e versa con devozione un obolo alla fede abbracciata da giovane. Da lungo tempo il morbo di Parkinson ne scandisce il congedo, intrapreso con grinta da uomo di mondo finché è stato possibile. Non c’era gusto nel 1996, ad Atlanta, a portare la fiaccola olimpica, prendersi la scena e colorare la sofferenza di dignitosa civetteria? Ma, adesso, basta con il teatro. Ormai è tempo che Allah, tanto sollecito nel dispensare altrove il sonno della ragione, conceda al proprio figlio un appuntamento meno effimero. Il silenzio è grande, la vita è stata lunga. E Liston, quella volta, doveva cadere un po’ più tardi. Auguri, furbone.
Giulio Azzoguidi
(LucidaMente, anno X, n.109, gennaio 2015)