Tra tanta retorica e scelte di comodo su uno dei temi più strumentalizzati dalla politica, la riforma dell’istruzione sarebbe fatta: piovono annunci di cambiamento e assunzioni, ma mancano sistemi seri per il reclutamento degli insegnanti e un interesse reale nei confronti degli studenti
I problemi della scuola assomigliano ai fiumi carsici, alle code in autostrada, ai fenomeni di eclissi: compaiono in determinati luoghi dimenticati della Terra e in precisi periodi dell’anno, per poi, altrettanto puntualmente, scomparire. La riapertura delle aule, le convocazioni dei supplenti, qualche crollo in un edificio scolastico o episodio di bullismo, per finire in bellezza con la prima prova dell’esame di stato: lo scritto d’italiano e gli argomenti proposti che scontentano tutti. Queste le situazioni che fanno parlare di “scuola”.
Lo scorso 3 settembre il governo di Matteo Renzi si è inserito nell’infinita discussione e ha esposto le linee guida che ispireranno l’azione riformatrice nel campo dell’istruzione e che saranno il nucleo dei provvedimenti legislativi del prossimo futuro. A conferma del fatto che la situazione politica in Italia è grave ma non è seria, come diceva Ennio Flaiano, ecco che arriva il rapporto messo a disposizione da Palazzo Chigi, a proposito della riforma battezzata la BuonaScuola. In mancanza di qualsiasi testo ufficiale e definitivo, decreto o circolare ministeriale, è possibile solo fare ipotesi sugli effetti del documento. Nelle 136 pagine del quasi saggio si legge che «l’istruzione è l’unica soluzione strutturale alla disoccupazione, l’unica risposta alla nuova domanda di competenze espresse dai mutamenti economici e sociali. Ciò che saremo in grado di fare nei prossimi anni determinerà il futuro di tutti noi più di una finanziaria, o di una spending review».
Dal punto di vista retorico, non sfugge la scelta strategica di usare la prima persona plurale per coinvolgere chi in realtà ha il semplice ruolo di assistere e recepire passivamente quanto viene proposto, e l’opinabile, sentimentale definizione di “Buona Scuola”, con tanto di maiuscole. Un’espressione che, se da un lato supera e fa rimpiangere il libro Cuore di Edmondo De Amicis, dall’altro conduce spontaneamente alla conseguente domanda: l’altra scuola, cioè quella di adesso, sarebbe cattiva? Quanto è utile una semplificazione di questo genere? In altre parole, se le attuali, malsane strutture didattiche preparano gli insegnanti di domani, bisognerebbe dedurne che essi stessi saranno dei cattivi docenti, finendo, secondo tale pensiero, in un circolo vizioso.
Dopo tre pagine di (ovviamente) buoni propositi – «ci serve il coraggio di ripensare come motivare e rendere orgogliosi coloro che, ogni giorno, dentro una scuola, aiutano i nostri ragazzi a crescere»; «oggi ripartiamo da chi insegna» – arriva il cuore dell’annuncio: «lanciamo un Piano straordinario per assumere a settembre 2015 quasi 150 mila docenti: tutti i precari storici delle Graduatorie ad Esaurimento, così come tutti i vincitori e gli idonei dell’ultimo concorso. E per questo bandiamo, nello stesso tempo, un nuovo concorso per permettere ad altri 40 mila abilitati all’insegnamento di entrare in carriera. […] Perché è per concorso che si accede alla carriera pubblica, perché le graduatorie sono state un grave errore da non ripetere». In quest’ultimo passaggio c’è però qualcosa che non torna: si ammette che le Gae (graduatorie ad esaurimento) sono una stortura nel sistema di reclutamento degli insegnanti, ma si sceglie di svuotarle di botto, senza procedere a una verifica effettiva della preparazione di chi in quelle liste c’è da così tanto tempo da essere definito “storico”.
La soluzione per una situazione già di per sé drammatica non può essere condonare il passato sperando di “ripartire”, senza che il merito e le capacità siano attentamente valutate: l’unico risultato ottenuto sarà quello di evitare sollevazioni sindacali e accontentare tutti, o meglio, i più rappresentati (ed elettori votanti…). E questo è certamente uno degli elementi più preoccupanti della riforma, visto che nell’ultimo concorso del 2012 soltanto il 10% degli iscritti alle Gae è risultato idoneo o vincitore. Come gli 80 euro garantiti alla classe media, così le assunzioni ricadranno in un bacino ben preciso di beneficiari. Tutt’intorno a esso ci sono i dimenticati della riforma, ovvero i non precari, i non docenti, gli ex studenti, i troppo giovani per essere nelle liste, i troppo grandi per essere eterni laureandi, dottorandi o “abilitandi”.
Ma veniamo alla realtà, che è formata dai due poli di docenti e allievi. Come si diventa insegnanti? Domanda difficile. I laureati entro l’agosto del 2014 stanno sostenendo le prove d’accesso al Tfa (tirocinio formativo attivo), che si articolano in un test preselettivo, un esame scritto e uno orale, al termine dei quali segue un anno di lezioni frontali all’università e di pratica nelle scuole. Come ogni tirocinio italiano, anche quest’ultimo non è retribuito ma a spese del malcapitato vincitore, per una somma che si aggira sui 3.000 euro, con la certezza che l’impegno richiesto non permetterà di portare parallelamente avanti un lavoro. Se i laureati sono stati fortunati con le tempistiche, hanno potuto iscriversi nelle graduatorie d’istituto, in cui confluiscono tutti i non abilitati in possesso del titolo. Sono proprio loro a formare le fila affette dalla “supplentite” che Renzi si propone di guarire, facendole sparire (vedi Maria Daniela Zavaroni, Quel male chiamato “supplentite”). C’è da dire, poi, che il numero degli idonei al tirocinio sarà superiore a quello dei posti effettivamente disponibili. Come si risolverà il problema? Che, alla luce di tutto ciò, la riforma sia più importante di una spending review o di una finanziaria, lo si comprende dal fatto che essa le sostituisce in pieno, lasciando agli aspiranti docenti il compito di pagarsi da sé il proprio lavoro.
E come si diventa buoni allievi? La questione può sembrare sciocca, ma lo diviene assai meno se si pensa a tutte le classifiche in cui l’Italia figura all’ultimo posto per la preparazione dei propri studenti. Senza una presa di coscienza di questo tipo, è una colpa ricorrere a un’ennesima sanatoria, dalla quale rimarrà comunque escluso chi non è ancora “dentro” la logica e i tempi del precariato, dell’esodato, del congelato Siss (vecchia scuola propedeutica all’insegnamento), dell’abilitante Pas (percorsi di formazione speciali), ma semplicemente tenta, da allievo, di diventare docente. Se guardassimo all’elevato numero di aspiranti maestri e professori non più come a una sciagura ma come a una risorsa, da esaminare seriamente e preparare al meglio, sarebbe la controprova più grande di una scuola buona, che funziona e che incoraggia a sua volta a insegnare.
Le immagini: una foto del premier Matteo Renzi, una pagina del testo la Buona Scuola e… graduatorie degli insegnanti.
Antonella Colella
(LucidaMente, anno IX, n. 106, ottobre 2014)
L’intestazione della riforma e dell’iniziativa è scorretta. Sarebbe stato corretto nominarla “PROPOSTA PER UNA SCUOLA MIGLIORE” o “PROGETTO PER UNA NUOVA SCUOLA”, ecc. “La buona scuola” è violenza e propaganda pura: si dà per scontato che sia buona una riforma prima che sia discussa e/o attuata. Perché non lasciare a studenti, famiglia e docenti di dire (prima e dopo) se è buona o no? Come se uno, nel presentarsi, affermasse: “Piacere di conoscerla. Sono onesto, bello, buono, garbato e piacevole”. E, con una donna: “Sono sexy, adorabile, da sposare”.