Alcuni dati biografici e psicologici disseminati nei suoi testi fanno supporre che il Sommo Poeta soffrisse di svariate patologie, tra cui l’epilessia psicomotoria
Leggendo con attenzione le scarse informazioni biografiche che Dante Alighieri dissemina nella sua vasta produzione letteraria, è possibile cogliere dei segnali che potrebbero indicare i problemi di salute dei quali forse pativa il Sommo Poeta. Per bontà di informazione è bene rammentare che non è semplice distinguere i dati storici da quelli letterari nella ricostruzione della sua biografia, perché tra i caratteri specifici del modus operandi di Dante c’è la propensione a fondere (con straordinaria efficacia) la realtà storica con la costruzione letteraria: soltanto in alcune circostanze la lente del paziente filologo e semiologo del testo può evidenziarne i confini e sottolinearne le differenze.
Tenendo conto di tali strutture testuali e della mancanza di documenti medici dell’epoca, è comunque possibile analizzare alcune indicazioni sintomatiche ben precise lasciate direttamente dal poeta italiano. Dai recenti studi compiuti da Marco Santagata, illustre dantista e docente dell’Università di Pisa, emerge la figura di un uomo affetto da problemi agli occhi, sin da bambino. Caso singolare, soprattutto se consideriamo che nessun altro autore medievale parla di malattie da lui sofferte con la medesima frequenza con cui ne parla l’Alighieri. Nel Convivio Dante ci parla di un indebolimento degli «spiriti visivi» (disturbo della vista) che lo affliggeva, tanto che le stelle gli «pareano tutte d’alcuno albore ombrate» e soltanto «per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo dell’occhio coll’acqua chiara» era riuscito a recuperare il suo «primo buono stato della vista» (Convivio, IX). Con tali sintomi oggi gli oculisti diagnosticherebbero un disturbo chiamato astenopia accomodativa.
Nella Vita Nova Dante racconta di un accesso febbrile che lo aveva condotto al delirio: «Mi giunse uno sì forte smarrimento che chiusi gli occhi e cominciai a travagliare come farnetica persona». Le crisi fisiche (come materia letteraria) fanno parte della fenomenologia delle manifestazioni amorose della tradizione testuale. In occasione di un matrimonio, Dante si reca, insieme a un amico, presso una casa dove sono presenti delle donne e lì, prima ancora di vedere la sua amata, inizia ad accusare dei sintomi di un male: «Mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto dalla sinistra parte e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo» (Vita Nova, XIV; cfr. anche Alberto Magno, De spiritu et respiratione, in Opera omnia, volume IX, Vivès).
Dante è l’unico, tra i rimatori del Duecento, a raccontare degli effetti traumatici che induce il pensiero amoroso fino alla perdita della vista e della coscienza. Stando a quanto il poeta dice, crisi del genere lo hanno colpito sin dall’infanzia. Egli stesso racconta di una crisi psicofisica avuta quando aveva ancora pochi mesi di vita: nella poesia E’ m’incresce di me sì duramente ricorda il giorno della nascita di Beatrice quando «la mia persona pargola» improvvisamente cadde a terra senza conoscenza. È plausibile che il poeta si rifacesse ai racconti ascoltati dai suoi familiari e da chi lo accudì quando era bambino e che successivamente avesse messo in correlazione l’episodio con la nascita di Beatrice per motivi squisitamente letterari (Beatrice nacque nel 1266 e Dante nel 1265).
Gli stessi sintomi sono presenti nella canzone Amor, da che convien pur ch’io mi doglia (forse del 1307), nella quale Dante racconta di come una folgore lo abbia trafitto per farlo rimanere senza vita. Il poeta si dilunga a narrare gli effetti della ripresa dal male e descrive la risoluzione della crisi come un «risorgere» dopo la «percossa» che lo aveva colpito con un «trono» (tuono): segue la narrazione degli effetti psicofisici del tremore e del pallore del suo viso come segno dello stato di debolezza e prostrazione in cui era caduto. Le crisi qui descritte non hanno nulla a che vedere con la concezione dell’amore come patologia (amor hereos) diffusa nella medicina dell’epoca e sono rappresentazioni esclusivamente dantesche: in nessun altro autore del Medioevo si trovano segni tanto particolareggiati e specifici come questi che mostrerebbero − come appunto ricorda Santagata − tutti i sintomi fisici di una crisi da epilessia psicomotoria.
Alla fine del canto III dell’Inferno Dante ha uno svenimento, così descritto: «E caddi come l’uom cui sonno piglia» (v. 136). Ugualmente ha un mancamento al termine del canto V: «E caddi come corpo morto cade» (v. 142). Questi svenimenti, tuttavia, potrebbero essere stratagemmi esclusivamente narrativi. Nel canto XXIV, sganciandosi completamente dalle tematiche amorose e facendo ricorso a termini tecnici e medici dell’epoca, Dante descrive il ladro Vanni Fucci, il quale, dopo essere stato morso da un serpente, viene polverizzato istantaneamente per poi riprendere lentamente conoscenza e l’equilibrio psichico: «E qual è quel che cade, e non sa como, / per forza di demon ch’a terra il tira, / o d’altra oppilazion che lega l’omo, / quando si leva, che ’ntorno si mira / tutto smarrito della grande angoscia / ch’elli ha sofferta, e guardando sospira: / tal era ‘l peccator levato poscia». È bene ricordare, in questo caso, che il termine «oppilazione» («occlusione», «ostruzione delle vene») è un tecnicismo del periodo che si usava esclusivamente in campo medico.
Non è pleonastico ricordare che Dante aveva la convinzione di essere predestinato a un compito importante e di essere stato investito da Dio per compiere una missione salvifica, credendo di dover svolgere un ruolo fondamentale nel mondo. Si tratta di comportamenti e persuasioni tipici dei sintomi dell’epilessia psicomotoria, che si manifestano insieme a ipergrafia, allucinazioni visive e acustiche (tra cui includiamo le visioni, che fanno parte, comunque, della cultura dell’epoca), interessi morbosi di natura filosofica e religiosa, tremore, svenimenti, idee di grandezza, iposessualità: caratteri di una personalità alterata che si ritrovano nel grande poeta fiorentino. Il delirio religioso (con psicosi profetiche), tuttavia, è presente anche in altri disturbi come sintomo di una psicosi depressiva, maniaca o schizofrenica.
Se, dunque, questi segni si intendono in senso medico come indice di crisi epilettiche, allora Dante trasforma una malattia che addita il paziente con un marchio fortemente negativo in un fenomeno che lo caratterizza positivamente: tale disturbo diventa uno dei fattori che avvalorano la sua persuasione di essere eccezionale e predestinato. Ascoltiamo Santagata: «L’attitudine visionaria che egli manifesta in molte sue opere, e in particolare nella Commedia − attitudine che la cultura medievale collocava sotto il segno del misticismo − potrebbe avere la sua radice profonda proprio in esperienze patologiche contrassegnate da stati allucinatori come quelle epilettiche: un’ipotesi questa da avanzare con molta cautela» (cfr. Marco Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori).
Non disponiamo di dati neurologici della presunta patologia dantesca, ma soltanto di elementi psicologici inseriti nel contesto letterario della semiotica testuale e, quindi, insufficienti per costituire delle prove. Dante è, innanzi tutto, uno scrittore in grado di mescolare e fondere tratti biografici e dati romanzeschi, unendoli in un unico blocco uniforme (e in questa operazione non è secondo a nessuno). Ricordiamo, inoltre, che i disturbi allucinatori possono essere presenti in altre patologie quali la schizofrenia e l’isteria, ma talvolta possono manifestarsi anche in assenza di malattie, collegabili a particolari momenti di stress o a condizioni psicofisiche e ambientali speciali (cfr. Oliver Sachs, Allucinazioni, Adelphi). Il poeta fiorentino potrebbe anche aver inventato alcuni sintomi del suo presunto stato patologico (il tratto romanzesco può assolutamente prevalere su quello biografico) o quantomeno averli ingigantiti, visto che le crisi fisiche rientravano nella fenomenologia amorosa della tradizione letteraria: va tenuto, però, anche conto che per l’uomo medievale i segni semiotici della testualità (non solo cartacea) nascono da una realtà continuamente permeata di simboli.
L’uomo del Medioevo è sempre impegnato a decifrare il suo universo. Dante, per esempio, conobbe davvero una ragazza che si chiamava Beatrice e soltanto dopo usò quel nome carico di destino e di simbologia per la sua produzione letteraria (Beatrice = beatitudine). È, dunque, difficile − anche se possibile − che Dante avesse inventato completamente i suoi tremori, gli svenimenti e le perdite di coscienza soltanto come escamotage narrativo, per meglio comunicare l’effetto fisico di uno stato amoroso. È come se in quella patologia − che forse ebbe davvero − egli scorgesse il sigillo del destino che lo elevava al ruolo di poeta-profeta predestinato. Fata viam invenient (Virgilio, Aeneis, X, v. 113).
LucidaMente ha dedicato alla figura e all’opera di Dante Alighieri i seguenti altri articoli: Colloquio con Giulio Leoni, scrittore di “thriller storici”; Dante, precursore dei poeti del Novecento; Quegli enigmatici versi del Sommo Poeta; L’universo di Dante riletto da Odifreddi.
Le immagini: ritratto di Dante Alighieri (1495, tempera su tela, 54 x 47, Ginevra, collezione privata) di Sandro Botticelli (Firenze, 1455-1510); un disegno che riproduce le alterazioni elettriche del cervello durante una crisi epilettica (fonte: www.universonline.it); la rappresentazione di una visione dell’aldilà (fonte: www.sguardosulmedioevo.org); La Divina Commedia di Dante (1465, affresco, 232 x 290, Firenze, Duomo) di Domenico di Michelino (Firenze, 1417-1491).
Marco Cappadonia Mastrolorenzi
(LM MAGAZINE n. 27, 18 novembre 2013, supplemento a LucidaMente, anno VIII, n. 95, novembre 2013)
Vita Nuova (1292-3): romanzo misto di versi e prosa. Dante narra di aver incontrato per la prima volta Beatrice quand’egli aveva 9 anni (numero simbolico), di averla rivista 9 anni dopo e di essersene innamorato (soprattutto per la sua gentilezza). Ricevutone il saluto, il poeta, secondo le regole dell’amore cortese, cerca di nascondere i suoi sentimenti dietro l’apparente amore per altre donne. Tale comportamento suscita però l’accusa di leggerezza da parte della gente, per cui Beatrice gli nega il saluto. Il poeta allora si accontenta di celebrare nella poesia le virtù di Beatrice, la quale però muore giovanissima. Il dolore del poeta troverà vero conforto nel fatto ch’egli promette a se stesso di non scrivere più nulla su di lei, almeno sino a quando non potrà farlo come lei meritava veramente.