Un’amicizia fra borghesia e proletariato, nella Parigi dei giorni nostri. Un libro e un tè, ecco la panacea per uscire da un ruolo imposto dalla società secondo il romanzo “L’eleganza del riccio” (Edizioni e/o) di Muriel Barbery
La scrittrice francese Muriel Barbery ha colto nel segno. Col proprio romanzo L’eleganza del riccio (Edizioni e/o, pp. 320, € 18,00), uscito per la prima volta oltralpe nel 2006, non esalta semplicemente il piacere della cultura raccontando una storia commovente (vedi al riguardo l’articolo pubblicato su LucidaMente Il piacere dell’evasione interiore in compagnia di un libro). Manovra piuttosto le corde dell’anima del lettore, con delicatezza ed eleganza.
Il romanzo – scritto sotto forma di diario a quattro mani – narra dell’improbabile amicizia tra due antipodi della società moderna: da una parte, una ragazzina di dodici anni, figlia di un deputato con un passato da ministro; dall’altra, l’umile portinaia di un palazzo nobile di Parigi in rue de Grenelle, lo stesso abitato dalla fanciulla. René, vedova cinquantaquattrenne, da ventisette anni portinaia del nobile palazzo, ha perso da sempre la sfida con la femminilità; ma senza mai annientare la stima di se stessa, pur riconoscendo i propri limiti. Gli studi interrotti dopo la quinta elementare; un aspetto fisico piuttosto sciatto; un tono educato che raramente sfocia in gentilezza, rivolto ai suoi “datori di lavoro”, come lei li definisce; un gatto che le struscia le gambe all’interno del bilocale sul retro della guardiola, nel quale aleggia un costante odore di cibo. Queste sono le caratteristiche che, secondo la donna, fanno di lei la portinaia per eccellenza.
Ma René è una donna dall’eleganza di un riccio: dietro l’aspetto aculeo si nasconde un animo ben più nobile di quello dei condomini di rue de Grenelle. Negli anni la sua camera da letto è divenuta una vera e propria biblioteca, straripante di testi di ogni genere letterario; dopo aver letto Anna Karenina, ha chiamato il suo gatto Lev. Tutti i martedì e i giovedì il suo tinello si trasforma in una sala da tè, che orgogliosamente ospita Manuela, l’unica sua compagnia: una portoghese che svolge dignitosamente i lavori domestici negli appartamenti del condominio. Nel tempo trascorso insieme – unico e irrinunciabile – la loro fantasia vola verso luoghi lontanissimi: in quegli istanti esistono soltanto il loro mondo, un tè al gelsomino e i prelibati pasticcini preparati da Manuela.
Paloma è una ragazzina decisamente fuori dal comune. A dodici anni ha già preso la decisione più importante della sua vita: se diventare adulti significa condurre l’esistenza dei propri genitori, tanto vale suicidarsi nel giorno del suo tredicesimo compleanno. L’angoscia per il compimento di tale gesto – premeditato con una cura maniacale – permane nel lettore per tutta la durata della storia. O ameno, fino a quando il destino fa approfondire la conoscenza fra René e Paloma. La ragazzina scopre infatti nella donna un immenso patrimonio umano, per cui vale la pena di continuare a vivere. Così, dopo la drammatica uscita di scena di René, rinuncia definitivamente al progetto del suicidio, avendo bisogno semplicemente di dissociarsi dalla sua detestata famiglia; necessitando unicamente di un po’ di silenzio e di tranquillità per poter riflettere sulla bellezza dell’esistenza umana, da lei appena scoperta.
Nella storia irrompe – in secondo piano ma non per importanza – un singolare condomino giapponese, il ricchissimo Kakuro Ozu. Con una classe che non ha eguali, attraverso reiterate occasioni di incontro con lei, dona a René il più bel regalo che una donna del suo rango possa ricevere: l’apprezzamento come persona e come amante della cultura. Quella cultura faticosamente occultata, entro la quale, dapprima solo attraverso una serie di battute direttamente tratte dalla letteratura russa, soltanto lui riesce a penetrare. Particolarmente toccante è l’esclamazione che rivolge a René dopo la sua amara constatazione di non essere stata riconosciuta da una condomina; soltanto perché vestita elegantemente: «È perché non l’hanno mai vista».
Il romanzo ha riscontrato un grande successo, tanto che la storia è stata trasposta in una pellicola cinematografica, realizzata nel 2009 da Mona Achache. Il riccio – questo il titolo – contiene alcune differenze rispetto al libro, ma ne mantiene inalterata la delicatezza. Al lettore, così come allo spettatore del film, viene offerta una trama toccante, narrata con una sensibilità struggente. In entrambi i casi, ci si affeziona al personaggio di René quanto basta per rimanere attoniti davanti al finale: una vicenda che – fino all’ultimo – sembra dirigersi verso una conclusione del tutto differente.
L’immagine: la copertina de L’eleganza del riccio, la locandina de Il riccio e una scena tratta dal film (©Eagle Pictures).
Emanuela Susmel
(LucidaMente, anno VIII, n. 94, ottobre 2013)