L’istituzione era nata con l’obiettivo di formare non solo dei professionisti della cultura ma anche il bacino di utenza cui ricorrere per l’avvicendamento dei docenti accademici. Oggi, tuttavia, complice il blocco del turnover e il ristagno del mercato del lavoro, assistiamo a una decisa inversione di tendenza. Al riguardo, abbiamo sentito Barbara F.
A settembre si terranno le prove di ammissione ai dottorati universitari, una strada sempre più battuta dai neolaureati: l’assenza di vocazioni certe e la possibilità di contare su una borsa di studio fanno della ricerca un’ennesima strada da “provare”, trasformandone però la funzione. Senza la prospettiva di una carriera, la specializzazione raggiunta da studenti-modello resta inutilizzata e difficile da riconvertire. Per quanto riguarda il campo umanistico, dove luoghi comuni e pregiudizi elitari rendono la discussione più accesa, abbiamo esposto i nostri dubbi sulle motivazioni e sull’utilità della ricerca a Barbara F., ex dottoranda dell’Università di Bologna. Sorriso aperto e fronte serena, la ringraziamo, in particolare, per la concretezza delle risposte.
Barbara, hai sempre saputo che saresti diventata una studiosa di greco e latino?«Inizialmente nient’affatto: provengo da una famiglia di ceto medio, in cui conta molto, com’è giusto, tenere presente una prospettiva di vita pratica. Ho frequentato infatti il liceo scientifico, in previsione di poter avere più strade aperte per il lavoro futuro».
Hai faticato ad ambientarti nell’università?«Anche in questo caso, il percorso che in seguito avrei intrapreso non è stato lineare fin dall’inizio. Mi sono iscritta alla Facoltà di Lettere classiche con indirizzo archeologico, credendo in questo modo di avere più sbocchi professionali. Purtroppo l’ambiente era estremamente competitivo e caotico, i professori distratti e disinteressati agli studenti: pensa che mi hanno fatto trascinare un esame per cinque giorni! La svolta è arrivata iniziando a frequentare i corsi base di greco: la passione che riesce a trasmettere un insegnante è contagiosa. Poi un altro incontro: all’esame di Letteratura greca un docente si è accorto delle mie potenzialità e mi ha “costretto” a passare a Filologia. Da allora, l’aspetto che ho apprezzato e che ora più mi manca è il contatto diretto, quotidiano, che anzi più di una volta al giorno avevo con i miei professori. Il momento di discutere con loro le correzioni della tesi mi entusiasmava».
Hai mai pensato di cambiare strada, di tornare indietro o, a seconda dei punti di vista, di andare avanti?«In realtà ci sono stati dei momenti cruciali in cui le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa. Ho studiato recitazione per anni, partecipando a diversi provini, fino ad arrivare alle selezioni per l’Accademia teatrale di Roma. Ero pronta a intraprendere questa strada, ma alla fine non sono stata scelta. Sembra un paradosso, ma sono convinta che si riesca bene in un ambito solo impegnandosi contemporaneamente in due cose diverse, tenendo la mente rivolta in più direzioni. In quel periodo mi stavo infatti preparando per le prove di dottorato: d’estate a Roma, con il ventilatore puntato in viso e una sfilza di testi da tradurre, prima di girare per le varie università in cui avevo fatto domanda».
A questo proposito, le sconfitte e la sfiducia che accompagnano il concorso – mi riferisco agli immancabili sospetti di raccomandazioni – quanto hanno pesato sulle tue scelte?«Per affrontare un luogo come l’università, ma in generale ogni momento in cui si accetta di affrontare una prova e quindi di sottoporsi al giudizio di una commissione, è indispensabile, prima di tutto, essere in pace con se stessi. Non farsi prendere dai propri demoni, mi ripeto, e cioè non assecondare troppo i nostri piccoli deliri di onnipotenza, non ostinarsi a procedere in un unico senso. Io sentivo, e sento ancora, di possedere la vocazione dell’insegnante, ma, di certo, non la causa del martire. Di fronte all’impraticabilità della didattica, ho scelto con passione la ricerca, ma senza forzarmi, senza costringermi a essere sempre la prima della classe. Mi sono laureata a marzo, impiegando un po’ più di mesi rispetto all’iter “ideale”. I miei colleghi, ben dodici su venti, hanno invece scelto di anticipare i tempi alla prima sessione dell’anno [a luglio, ndr] per partecipare al primo concorso disponibile».
E com’è andata?«A Bologna solo una ragazza del gruppo (e in seguito a un ripescaggio) è risultata vincitrice. Io ho provato anche a Padova, Roma e Trento. Il metodo per preparami era semplice. In base alla tradizione di studi di una determinata sede, mi concentravo sugli autori che era più probabile che venissero scelti. Nei primi due casi, la prova di traduzione non andò bene, e mi stupisco ancora di alcuni errori! A Trento invece non mi presero per questioni di punteggio discutibili: lì la versione era buona ma non mi ammisero all’orale. E poi per ultima Bologna, dove il confronto con il greco aveva un significato particolare: il professore che mi aveva “aperto gli occhi” faceva parte della commissione e le aspettative erano alte. Tradussi Tucidide, anche se il testo era stato estrapolato in maniera non proprio logica, ma tradussi bene e vinsi».
Prima del dottorato hai affrontato tante ripartenze e viaggi. E durante i tre anni?«Anche allora ho viaggiato: ho trascorso i sei mesi di formazione all’estero previsti dal dottorato a Oxford, dove non solo ho frequentato, ma ho anche potuto tenere personalmente sei conferenze! Da questo punto di vista l’università italiana è ancora molto arretrata: ai ricercatori viene lasciata scarsa autonomia, nonostante il nostro livello di preparazione umanistica sia molto più elevato, si organizzano pochi incontri di carattere internazionale e davvero professionalizzanti per i partecipanti. Pur non essendo un’esterofila, riconosco che questa chiusura, questa fiducia solo parziale verso i dottorandi, potrebbe essere uno spreco, un’occasione mancata».
Quindi restare o andare via?«Fortunatamente ho alle spalle una situazione familiare che mi permetterebbe di partire e un compagno pronto a seguirmi. Ora sto lavorando alla stesura di due articoli tratti dalla mia tesi, per presentarli alle riviste scientifiche e trovare degli interessati. A prescindere dalle persone, l’importante è far emigrare le idee, farle crescere attraverso il confronto, permettere loro di espandersi e di maturare».
Come si vive fuori dal dottorato? Non hai paura di essere rimasta sotto una campana di vetro, protetta ma al tempo stesso intrappolata?«Da questa esperienza ne esci a trent’anni ed è bene saperlo emotivamente: il mercato del lavoro era lì fuori mentre tu, sì, sei stata a casa a studiare. Ma non può diventare una colpa, non dovrebbe esserci bisogno di una giustificazione. Non escludo di partecipare al Tfa [Tirocinio formativo attivo, richiesto per l’abilitazione dei futuri insegnanti, ndr]. Anzi, nonostante non ci siano indicazioni certe, sembra l’occasione più concreta. Mi sono cimentata anche nel settore dell’amministrazione pubblica, ed è stato rigenerante predispormi per un’attività diversa, pensarmi in funzione di un altro tipo di lavoro».
Cosa mi diresti se volessi tentare il dottorato?«Sii consapevole di tutti i problemi, gli ostacoli, le voci e le ombre che gravano sul concorso, poi, semplicemente, dimenticali».
Le immagini: una sala gremita di aspiranti dottorandi; il cortile i laureati della Facoltà di Lettere a Bologna; una pila di libri.
Antonella Colella
(LucidaMente, anno VIII, n. 93, settembre 2013)