Una serie di stringenti argomentazioni contro le tesi di chi propone di votare per l’opzione “B”: questa indebolisce la convivenza tra cittadini diversi
Il referendum consultivo del 26 maggio sul finanziamento delle scuole materne paritarie nel Comune di Bologna è stato proposto da 13.500 firmatari – in larga parte laici – che ritengono meglio utilizzare le risorse per le scuole comunali e statali (scelta A). Qui intendo motivare perché sia importante a livello nazionale che, nonostante il livello consultivo, prevalga la tesi A e non l’altra scelta, la B, preferita dal sindaco felsineo del Partito democratico, Virginio Merola.
L’importanza profonda della scelta A emerge in modo nitido dalla tesi contraria a essa. Perché le motivazioni dei referendari sono il rispetto dell’art. 33 della Costituzione e uno spirito di richiamo alla scuola pubblica e di diffidenza verso gli istituti religiosi. Ma la linea degli oppositori – con la scusa di difendere la scuola pubblica a Bologna, da anni legata alle convenzioni Comune-scuole paritarie – parla tanto di Stato, però di fatto aggira lo Stato per far governare la convivenza dal peso di comunità privilegiate. La scelta B è illustrata nei due appelli dei professori Stefano Zamagni e Giovanni Sedioli, non scalfibili con l’approccio della sinistra tradizionale. Essi sostengono che, utilizzando le risorse finanziarie solo per le scuole comunali e statali, si commetterebbero tre errori: si violerebbe la libertà costituzionale educativa dei genitori; si rinuncerebbe all’alleanza strategica bolognese tra istituzioni pubbliche e società civile sul servizio pubblico delle parificate in applicazione del principio costituzionale di sussidiarietà; non si garantirebbe comunque la medesima offerta quantitativa complessiva delle scuole per l’infanzia.
Ebbene, una simile tesi – nonostante si dica fautrice del sistema pubblico delle scuole dell’infanzia che esprimerebbe il principio di laicità – corrode dal dentro i fondamenti istituzionali pubblici della convivenza civile fondata sull’autonomia di ogni cittadino nella propria diversità. E quindi è non laica e pericolosa. Ripercorriamone l’argomentare. Parte dal distorcere il disegno costituzionale. La Costituzione basa la libertà individuale su regole pubbliche e non sui clan. Dunque, il diritto-dovere dei genitori di educare i figli (art. 30, comma 1) non è un mondo a parte, ma rientra nel sistema educativo generale dell’articolo 33 e poi nel principio della scuola dell’obbligo con parametri pubblici. Non essendo marxista il nostro ordinamento, lo stato funziona attraverso la libertà di scelta del cittadino e, quindi, da una parte lascia a ognuno libertà di organizzare l’insegnamento preferito e dall’altra si fa carico di strutture e regole per l’istruzione pubblica garantita a tutti senza preferenze. Il punto è qui.
La libertà di insegnamento di ciascuno non significa affatto che lo Stato debba farsene carico finanziando preferenze di singoli a scapito della propria funzione di garanzia. Non soltanto per il testo della Costituzione, ma per una stringente logica intrinseca. Lo Stato presiede il convivere dei cittadini e funziona in base alle loro decisioni; così promuove l’esercizio delle libertà civili individuali che crea le condizioni per attivarsi, infittire le relazioni interpersonali, accrescere la conoscenza e aumentare le risorse disponibili. Perciò la libertà di insegnamento non è violata. Il presunto diritto di educare è la pretesa dei gruppi comunitari di preesistere allo Stato ritenuto loro emanazione e, in quanto precursori, di chiederne l’intervento per finanziare la loro particolare libertà separata, trattandola come un loro privilegio sugli altri. Non si può imboccare questa strada. La libertà di alcuni (i privilegiati) fa saltare la libertà di ognuno e ne riduce le disponibilità
Da questa prima distorsione, la tesi B passa a una seconda, sempre usando il privilegio (nonostante dica di difendere la scuola pubblica). Col teorizzare l’alleanza strategica tra istituzioni pubbliche e società civile, fa intendere di imperniare la democrazia sull’accordo tra il potere istituzionale e quello dei cittadini. Solo che in una normale condizione liberaldemocratica, proprio perché istituzioni e società sono aspetti distinti della medesima convivenza, il potere istituzionale coincide con le decisioni dei cittadini. Dunque non c’è alcuna alleanza da fare e parlarne equivale a insinuare che l’alleanza è necessaria poiché le istituzioni non sarebbero del tutto rappresentative e, per legittimarsi, avrebbero bisogno di dar riconoscimenti alla società civile.
Peraltro, questo argomentare felpato corrode l’impianto democratico delle decisioni istituzionali assunte dai cittadini con il voto. E dissimula il privilegio dato a un gruppo, usando la destrezza di equiparare le convenzionate al servizio pubblico, per poter comunque affermare che quel finanziamento rientra nel sistema educativo nazionale. Affermazione infondata. Specie in un periodo di crisi, non è lo stesso finanziare la struttura pubblica oppure una iniziativa privata (convenzionata o parificata) che svolge un servizio equivalente ma lo svolge attuando una propria ineludibile finalità specifica (per di più nel settore cardine dell’istruzione). Anche in caso di onlus, l’iniziativa privata ne ricava un prestigio (cioè un utile concreto d’altro tipo) con il contributo di soldi pubblici. Per questo le strutture private convenzionate non debbono ricevere finanziamenti pubblici (caso diverso nella ricerca, ove le conoscenze acquisite sono destinate a divenire pubbliche).
Oltretutto, sottolineare che l’alleanza attuerebbe la sussidiarietà costituzionale, rende chiara la natura dell’operazione. Il 4° comma dell’art. 118 dice che le pubbliche istituzioni favoriscono l’autonoma iniziativa di cittadini per svolgere attività di interesse generale. Ora, non si può considerare il verbo favorire quale sinonimo di erogare moneta e insieme snaturare la frase autonoma iniziativa, che ovviamente significa iniziativa con autonomia finanziaria e decisionale. Le scuole convenzionate o parificate non hanno per definizione questa autonomia (devono rispettare norme pubbliche su programmi, impostazioni e didattica) e dunque le relative problematiche non rientrano nella sussidiarietà della Costituzione, che promuove solo l’impegno delle istituzioni pubbliche per il libero sviluppo di ogni cittadino nel manifestare la sua autonoma diversità. Ne consegue che tirare in ballo la sussidiarietà costituzionale – che non lega con l’alleanza istituzioni-società civile – rientra nell’operazione tesa a inoculare l’idea che le istituzioni debbano convivere con il privilegiare gruppi di operatori. Il che snatura progressivamente il senso delle istituzioni democratiche.
Infine, la terza distorsione degli oppositori è dire che il non finanziare le paritarie non darebbe al Comune la disponibilità per creare nelle proprie scuole per l’infanzia analoga offerta quantitativa (a parità di spesa, 145 posti contro i 1.736 assicurati dalle paritarie). A parte che il dato è controverso, se fosse vero, il reale problema amministrativo per i bolognesi sarebbe controllare il perché di questa incredibile differenza di costo. Solo il controllo riporterebbe il costo del servizio pubblico al livello naturale risanato dalle reti amicali. Continuare a tamponare il problema scegliendo il privilegio per il particolare di alcuni è un danno ulteriore per il cittadino, che, non correggendo i costi pubblici abnormi, accetta la logica delle disfunzioni e dei privilegi pubblici e dà il potere alle consorterie private chiuse. Il che è molto più oneroso. È per tutti questi motivi che in ambito nazionale è importante, dal punto di vista liberale, la vittoria il 26 maggio della tesi A e respingere la scelta B, molto ambigua per la convivenza democratica in Italia di cittadini diversi.
Raffaello Morelli
(LucidaMente, anno VIII, n. 89, maggio 2013)