Un rapporto a due (e più) fondato, con la scusa dell’“essere alternativi”, sulla sottomissione della donna. “Il viaggio sessuale di Beatrice”, un racconto di Diana Tomino
Quando incontrai per la prima volta Alberto mi sembrò il tipico omosessuale di provincia banalizzato e stereotipato. A incuriosirmi furono i suoi pantaloni troppo corti e le sue scarpe, spropositatamente lunghe per quelle gambine esili; visto da lontano sembrava vestito con materiale di scarto, antico, inadeguato, su cui spiccava, in netto contrasto, una faccia da bimbo buono, da cocco di mamma. Io, da buona fan di Dawson’s Creek, innamorata di Jen Lindley, “l’amica dei gay”, e attratta dai contrasti netti del mio mondo o bianco e nero, non riuscivo a smettere di cercarlo, di fissarlo. E non certo perché volessi “cambiarlo”.
Riuscii finalmente a conoscerlo e rimasi subito delusa dalla sua voce stridula e dal suo gesticolare, anonima imitazione del classico gay dei film degli anni Ottanta. Continuai a frequentarlo anche quando mi presentò la sua “morosa”, una giovane donna mediamente bruttina. La loro storia mi sembrava la messinscena tipica di ogni essere incapace di confessarsi, di fare outing, di rompere le convenzioni sociali. Lei, alla fine, si rivelò l’individuo interessante della coppia, l’elemento dissonante che avevo percepito in lui… Lei, una novella Beatrice, mi prese per mano e mi guidò in un sordido e sconvolgente viaggio nell’inferno sessuale della provincia italiana, un viaggio tra la noia e la nullità di figli abbandonati al loro destino dalla feroce cecità dei propri genitori.La mia Beatrice, quella sera, aveva alzato un po’ il gomito, aveva vomitato sulla tenda nuova della doccia, aveva raccontato i suoi disagi sessuali, si era liberata e volava come un pulviscolo nel vento: si sentiva leggera, potente, invincibile… Ma che cerchio alla testa il mattino dopo, quando le prime parole, ancora impastate di Jägermeister e vomito, furono: «Non è successo niente, vero?». Lui era nel suo letto, con il suo pigiama, e tra loro si strinse un patto di mutuo annullamento, di complice perdizione tra droghe, alcool e sesso, sesso insano, estremo, umiliante…
Dopo qualche settimana la mia ingenua sognatrice di provincia, in una assolata domenica mattina, bussò alla porta di Alberto Bea avrebbe voluto essere ancora a dormire, ma lui l’aveva invitata e non poteva dirgli di no. «Buongiorno, talpa» lo salutò lei, porgendogli il sacchetto con i cornetti stantii acquistati nell’unico bar aperto. Poi si diresse verso il soggiorno. C’era il divano letto aperto e una donna si stiracchiava armoniosamente sulle sue lenzuola rosse. Lui si infilò nel letto e iniziò a baciarla sul collo. Bea avrebbe voluto scappare, non capiva, avrebbe voluto gridare, ma, come le era stato ordinato, si sedette su una scomoda sedia di plastica da giardino e restò a guardare i “pomicioni” che si accorgevano di lei, che la scrutavano, mentre si toccavano con mani poco avide, mani che si animavano solo attraverso le sue espressioni sgomente. Non fecero sesso, né le chiesero di unirsi a loro. Solo dopo, quando la rivale andò via, quando lui iniziò a spogliarla, a toccarla, lui, il “ragazzo dolce”, le disse che aveva bisogno di “quello” per sentirsi apprezzato, conteso, virile. Bea restò lì, fece sesso con lui, con lui che, finalmente, non era “egoista”, che finalmente dava e non pretendeva.Seguirono tante altre scene, tutte simili a questa. Cambiava soltanto il protagonista: il divano della discoteca, il sedile posteriore di un’auto… E Bea “doveva” accettare quell’unico modo, quell’unico sistema che riusciva ad accendere la passione di Alberto Finirono così cene, feste, gite, e Beatrice pian piano allontanò tutti gli amici, specie le ragazze bruttine, perché quelle facili prede erano le favorite di Alberto Il quale, più la umiliava in pubblico, più cercava, con sempre meno ardore, di soddisfarla in privato.
Intanto il simpatico beone della domenica si era trasformato in un serissimo alcolizzato sempre dedito alla sua unica occupazione: sfiorare il coma etilico! Bea guardava le coppie felici e piangeva, piangeva perché avrebbe voluto essere come loro, come quelle coppie che lui definiva banali. Lui non sarebbe mai stato così, era un’artista, un’anima sofferente. Lui si licenziò e si trasferì a casa della mia amica, non uscì più, se non per andare a comprare il vino, e iniziò a essere il classico compagno alcolizzato, perennemente “stravaccato” sul divano, che, occasionalmente, la picchiava.Con questo sfondo iniziò “l’incubo del sabato sera”: ogni sabato Bea era “costretta” a guardare per ore e ore, spesso fino a notte fonda, filmati pornografici, facendo finta di bere l’ennesima birra in sua compagnia. I filmati andarono sempre più spesso verso il fetish, lui si appassionò al fist fucking estremo e lei iniziò ad avere paura. Ma a lui serviva perché dopo “faceva bene l’amore” e Bea non trovò altra soluzione che non fosse dire: «Vero, è bello questo rapporto così aperto, sincero, senza maschera, ma io intanto cucino, così, quando vuoi, è tutto pronto». Dopo qualche sera lui annunciò, con il suo solito fare trionfante e scenografico: «Merdina, ho fatto la spesa!». La busta del supermercato era sul tavolo e sembrava un po’ piccina, esigua, ma era un inizio… intanto si era alzato dal divano. L’idea di Alberto non era però la stessa di Bea, quelle compere non erano per la cena: «Ti prego, ciccia, dimmi di sì una sola volta, faccio le foto e poi non te lo chiedo più!». La mia piccola guida non accettò di farsi infilzare come un pollo allo spiedo e le cose tra loro peggiorarono.
Arrivò l’estate e lui le propose di andare in campeggio. I primi giorni trascorsero lenti e banali tra una birra e una grappa, con lui nudista tra i nudisti e lei con il suo costumino. La sera era diventata una vera luna di miele, lui non le chiedeva di indossare completini di lattice e intimo da sexy shop e non le domandava più di stare in posa per quelle che, a lei, sembravano ore. Ancora una volta Bea si comportò da sempliciotta: credette in un cambiamento, malgrado ci fossero quei discorsi strani, tanto strani da sembrare uno scherzo. Una mattina le diede un foglio con delle indicazioni stradali e le disse di voler andare a vedere la spiaggia di M., una “spiaggia free”: quindi la vacanza, le carinerie, erano tutte volte a quell’unico fine! Bea continuava a ripetere, lungo un interminabile tragitto per quelle sconosciute campagne: «Andiamo via, io non voglio venirci, potrebbe portare alla rottura tra noi…»! E lui, di rimando: «Ormai siamo qua e io non voglio farti fare niente, voglio solo guardare!». Arrivarono allo spiazzo descritto sulla mappa: le indicazioni dicevano di andare a sinistra e dopo qualche centinaio di metri non incontrarono altro che bosco. Tornarono indietro e presero il sentiero a destra. Bea continuava a ripetere di volersene andare via, che le indicazioni parlavano di pochi passi e loro stavano camminando da molto, che forse era una bufala. Trovarono una caletta per famiglie e Beatrice riacquistò il suo spirito: la fortuna l’aveva assistita e, se davvero esisteva quella spiaggia, loro due non sapevano dove fosse.Alberto, con la sicurezza di chi tutto conosce, invece di risalire in macchina, fece qualche metro in avanti e poi girò a destra. Si ritrovarono in un boschetto: la base degli alberi non si vedeva, c’erano preservativi usati, fazzoletti sporchi e lembi di riviste pornografiche in concentrazioni industriali. Videro quattro alberi nel loro percorso e, più si inoltravano nel bosco, più aumentavano la spazzatura e la puzza, un odore che stringeva lo stomaco di Beatrice, ormai in preda alla nausea. Sbucarono in una sorta di prato e videro spuntare, separatamente, tre individui, che fecero loro una muta richiesta. Lui fece segno di no con la testa e quelli andarono via: erano guardoni. Erano in uno spazio aperto, ma la puzza e la nausea aumentavano esponenzialmente e, mentre lui cercava di scendere verso quella spiaggia dove tutti “trombano” con tutti, tutti guardano tutti, tutti possono tutto “previo consenso” degli interessati, Bea, nonostante i guardoni, nonostante la pericolosità dell’ambiente, si girò e gridò: «Io me ne vado!». Corse tanto Beatrice, incurante delle spine, pestando i preservativi, si fermò solo quando raggiunse la macchina, si appoggiò al cofano e vomitò. Avrebbe aspettato lì senza chiavi, acqua e cellulare anche tutto il giorno. Si sedette a terra e cercò di pulirsi la bocca con la maglietta e vide un fazzoletto di carta. Non si era accorta che lui era lì Le disse: «Che maiali, dovrebbero cercare di tenerlo pulito ’sto posto, così fa schifo… non ti viene di farci niente!».
Finirono le vacanze, la vita tornò alla sua routine, ricominciarono gli appuntamenti del sabato, i completi di pizzo tornarono a mascherare Bea, lui continuò a tagliarsi, con tagli regolari, braccia e gambe ogni volta che non riusciva a fare l’amore con lei, cosa che, ormai, era sempre più frequente e, del resto, anche lei non riusciva più a farsi toccare da lui.Dopo una cena a casa mia scoppiò una strana serenità tra loro, lui riprese a uscire, a lavarsi e smise di guardarla come una donna e di “costringerla” al sesso. Sembrava un buon equilibrio fino a quando Bea tornò dal lavoro, con il solito programmato ritardo, e trovò la tavola apparecchiata, una bistecca troppo cotta nei piatti e lui gioviale, come quando erano solo amici. Inutile dire che ancora una volta Beatrice si era illusa. Alberto voleva festeggiare con lei “rendendola partecipe” della propria felicità: erano infatti due settimane che aveva una storia di solo sesso con il mio vicino di casa e aspirava che Bea partecipasse ai loro giochi o che almeno li guardasse mentre facevano l’amore, perché lui si sentiva in colpa nell’escluderla. Non avendo ricevuto risposta positiva, lui chiuse la storia e tornò a tormentare la mia amica.
Era il matrimonio della zia di Alberto, la zia che era, per età e rapporto, praticamente una sorella. Beatrice non si sentiva bella e a proprio agio con l’abito nero con la rouche di pizzo rosso che lui le aveva scelto: troppo scollato, troppo volgare… ma meglio evitare discussioni. Bea uscì dalla stanza del ristorante riservata alla sposa, in silenzio e, con assoluta calma, si diresse verso l’uscita, accese la macchina e uscì dalle nostre vite. Ricordo ancora il suo ultimo sms: «Ora basta, stava facendo sesso con la sposa! Anche l’incesto, no! Spero di rivederti».Queste righe raccontano una storia vera, anche se non sono scritte con il linguaggio della cronaca perché c’è di mezzo il cuore e sono diventate, ahimè, una sorta di messaggio nella bottiglia. Sono passati tanti anni e tanti numeri telefonici e io non ho più visto la mia Beatrice. Spero che lei legga questo racconto e si faccia viva. Vorrei solo sapere se sta bene, se ha capito che prima di amare bisogna amarsi, se è, nonostante tutto, serena… Vorrei stringerla tra le braccia e dirle: «Ti voglio bene, io te ne ho sempre voluto».
Le immagini: modalità varie di fist fucking e Venere e Cupido addormentati e spiati da un satiro (1524‐1525 circa, olio su tela, 188,5×125,5, Parigi, Musée du Louvre) di Antonio Allegri detto il Correggio (Correggio, 1489 – Correggio, 1534).
Diana Tomino
(LucidaMente, anno VIII, n. 89, maggio 2013)