La nostra lettrice esprime soddisfazione per la rielezione dell’anziano uomo di stato: un gesto d’amore per l’Italia. E ora…
La rielezione di Giorgio Napolitano è il segno tangibile del livello di inadeguatezza raggiunto da Partito democratico e Popolo della libertà. I due partiti maggioritari hanno chiesto un enorme sacrificio a Napolitano, un uomo di 88 anni che ha già compiuto magistralmente il suo dovere nei confronti dello Stato. Checché se ne dica, la sua disponibilità a ricandidarsi è stata un grande gesto d’amore nei confronti dell’Italia. Mi vengono alla mente le parole di Madame De Staël, le cui accuse verso gli italiani dell’Ottocento, incapaci di diventare fonte di rinnovamento, sono ancora attualissime: «Una classe di eruditi che vanno continuamente razzolando le antiche ceneri, per trovarvi forse qualche granello d’oro» (Sulla maniera e la utilità delle traduzioni).
Il Pd ha commesso un errore dietro l’altro. Il passo che l’ha portato dritto dritto giù nell’abisso è stato l’accordo sulla candidatura di Franco Marini, che la dirigenza del partito ha considerato come una sorta di contrappasso da pagare per arrivare a Palazzo Chigi e scongiurare il ritorno alle urne. E questo è stato fatto dopo aver ribadito innumerevoli volte no all’inciucio, no all’alleanza col giaguaro. Il segretario Pierluigi Bersani poteva scegliere tra due strade diverse: l’apertura al Pdl o l’apertura al Movimento 5 stelle. La via di destra l’ha trascinato nella palude. Fallita l’ipotesi Marini, la vittima sacrificale è stata Romano Prodi. Tutti hanno subito additato i renziani, accusandoli di essere i franchi tiratori, ma il pesce puzza sempre dalla testa.
Ancora non si è capito perché il Pd non abbia nemmeno preso in considerazione il candidato designato dal M5s, Stefano Rodotà, peraltro proveniente dalla corrente più limpida e laica della sinistra. Beppe Grillo, proponendo il professore, ha voluto mettere alla prova il centro-sinistra, che ha miseramente perso la sfida. Solo Sinistra ecologia libertà sembra esserne uscito illeso. Bersani ha vinto le primarie, ha non vinto le elezioni e ha clamorosamente perso la partita del Colle. Le colpe di un intero partito, frammentato e avviluppato attorno ad un connubio antico e non refrattario (quello tra Democrazia cristiana e Partito comunista italiano), sono ricadute su di lui; il Pd ormai è una barca alla deriva, senza timone e senza timoniere, soltanto con una schiera di sottotenenti ambiziosi. Un grazie a Napolitano, che ha inviato le sue scialuppe.
Il piano del rieletto Capo dello Stato è chiaro: creare un governo del presidente, di scopo o che dir si voglia, che sia in grado di attuare quelle riforme necessarie a sbloccare il Paese. Nel momento in cui gli ingegneri istituzionali avranno modificato la legge elettorale e la forma di governo – tempo tecnico circa uno-due anni –, egli rassegnerà le dimissioni e potrà finalmente godersi il tanto meritato riposo. Sembra piuttosto certo, a questo punto, che lo scioglimento delle Camere e il ritorno alle urne non siano possibilità contemplate, almeno non nel breve periodo.
I manifestanti che bruciavano le tessere del partito – che pare, peraltro, fossero scadute – sono diventati l’emblema di un Paese che va a fuoco. La miccia avrebbe potuto accendersi sabato scorso, in piazza di Monte Citorio. La protesta targata Grillo sarebbe diventata facilmente preda della strumentalizzazione da parte dei soliti violenti e sovversivi. La retromarcia su Roma ha scongiurato l’attivazione della bomba ad orologeria che è piazzata nel cuore dell’Italia. Chissà se prima o poi arriverà la persona in grado di disinnescarla e non solamente rimandarne lo scoppio. E quella persona dovrà soprattutto essere in grado di dare una risposta a quell’enorme punto interrogativo che si chiama lavoro.
Chiara Toneguzzo
(LucidaMente, anno VIII, n. 88, aprile 2013)