L’incipit del nuovo, enigmatico romanzo di Giovanni Nebuloni: “Viaggi inattesi” (Edizioni Amande)
Capitoli numerati con progressione contraria, come in una sorta di conto alla rovescia. Nella logica della poetica del Fact-Finding Writing, questo è uno dei tanti espedienti narrativi di Viaggi inattesi (Edizioni Amande, pp. 210, € 14,00), sesto romanzo di Giovanni Nebuloni, un’opera caratterizzata dagli affascinanti esoterismi e intrecci tipici dello scrittore milanese. Per sua gentile concessione, ne offriamo in assaggio al lettore i primi due capitoli.
Italia. Vanzago (MI), aperta campagna – dalle 14.43.11
«Resusciterai, vedrai» rassicurò Sabrina, lanciando la primula che aveva in mano s’un volto, mentre la madre esortava a guardare verso di lei. «Ai morti non si regalano fiori?» domandò la bimba. «Crisantemi?» sussurrò Grazia, d’istinto. «Forse questi ne hanno bisogno!» esclamò Sabrina Grazia sorrise, sospirò e abbassò la videocamera. Vide lei pure le forme sull’erba nel boschetto di robinie e s’avvicinò. Osservò che si trattava d’una sorta di sculture di esseri umani. Lunghe un metro e alte come un mattone, erano grigie e nere e il materiale di cui erano fatte ricordava la grafite. Evidenziati da profonde incisioni, vi si riconoscevano il viso, le scarpe e i vestiti di persone. Si chiese se fosse l’installazione d’un artista e rifletté che, se così fosse stato, vi sarebbero state persone presenti. L’evento inoltre sarebbe stato annunciato. Non ne aveva però avuto notizia ed era qui sola con la figlia, che prese per mano. L’allontanò e le intimò di non muoversi. Spense la videocamera. Tornò alle cose e fantasticò che fossero le isole d’un arcipelago e che le righe dei capelli, i segni dei colletti delle camicie e delle giacche, le cinture e le cuciture dei jeans, le pieghe dei pantaloni fossero strade, costruzioni, e rotonde e piazze gli occhi e i bottoni. Ma come non aveva potuto scorgere le statue che, riprendendo Sabrina, avrebbe dovuto necessariamente inquadrare? Accertò che la figlia fosse dove l’aveva lasciata e senza comprendere che l’apparente sorriso della bimba era una smorfia di dolore, riattivò la videocamera. L’istante dopo, ebbe la conferma che le forme erano visibili soltanto a occhio nudo, non dall’obiettivo. Toccò una delle isole, le sagome che si definì “paesi dell’anima” e notò che la superficie era fredda, scabra come la selce. Non lasciava residui sulle dita ed ebbe la sensazione che fossero manifestazioni di alieni. Realizzò quindi che i ritratti erano di maschi d’una decina d’anni. Si chiese se costituissero un gruppo con una qualche coerenza e all’improvviso, fu sicura d’aver già visto altrove i bambini che le forme ritraevano. Erano componenti della classe di Nino in quinta elementare, alcuni dei compagni che, molte volte, Nino le aveva mostrato in fotografia. Questo era Luigi e quello Fernando, questo Andrea e suo marito, no, Nino non c’era. Non ricordò il nome degli altri qui raffigurati e si turbò al ricordo che Andrea, Fernando, Luigi e una mezza dozzina d’altri se n’erano andati in età diverse. Erano morti in tanti da indurre il marito a supporre che la loro fosse una classe su cui sarebbero gravate maledizioni. O che sarebbe stata al centro d’un complotto criminale, pertanto oggetto di omicidi anche se, intagliati in queste statue, i compagni di Nino sembravano ora angeli vivi. Come un angelo era la figlia che volle riguardare, e il cui nome urlò. Sabrina era riversa sull’erba. Corse da lei e vide che aveva gli occhi chiusi. Il volto e le mani erano arrossati. Sentì che al collo le pulsazioni erano irregolari e Grazia la sollevò e la strinse a sé, proponendosi di fare qualcosa. Un malore diffuso, tuttavia, glielo impedì. Aveva nausea e un cuneo di ferro le penetrava nelle tempie, nella nuca. Un mare di schiuma si gonfiava nello stomaco, nei polmoni e nell’intestino e si propose di telefonare subito al marito. Non prima d’aver fermato il trattore che intravide.Il conducente, la cui attenzione cercò d’attirare, non avrebbe rifiutato di condurle alla strada asfaltata e verso casa alla periferia di Vanzago. Sul pianale del carro a traino, avrebbero incrociato poi l’auto di Nino che, avvisato da lei, le avrebbe accompagnate all’ospedale di Rho.
U. S. A. – New York, un’abitazione di Joseph Hillman – dalle 09.02.46 ora locale
Si scorgeva il Central Park, dall’attico di Manhattan di Joseph Hillman, che si scostò dalla finestra domandando: «Vuoi venire con me allo Stagno della Tartaruga?» Ariel scosse il capo. «Otto anni?» incalzò il nonno. «Oggi non è il giorno del tuo compleanno?» Alzando gli occhi dal libro, la bambina lo fulminò con lo sguardo, come per rimproverarlo: “Non è possibile che te lo sia dimenticato!” L’anziano uomo s’accomodò su una poltrona di cuoio e lisciò i radi capelli bianchi. «Stasera, ristorante di pesce oppure di carne?» «Pesce!» rispose Ariel. «Sai che mi piace il pesce!» «Cosa leggi?» «T’importa?» Joseph distese le gambe sul parquet e senza poterlo ricordare, si chiese quanti anni avesse avuto il primo bambino che avevano tolto di mezzo. Valutò che la domanda era insignificante e rammentò invece come si era avviata, si sarebbe potuto affermare, ogni cosa al mondo. Qual era stato il principio di tutto quando, quarant’anni or sono, lui e altri sei uomini della confraternita decisero che la prossima riunione con gli altri fratelli massoni sarebbe forse stata l’ultima. All’annuncio delle possibili dimissioni di membri dalla Gran Loggia, la sorpresa della comunità riunita in assemblea fu palpabile, quasi materia vivente e vi furono vocii e cori di disapprovazione. Si svolsero quindi infuocate discussioni. Ma, infine, dovettero accettare il distacco degli elementi che, in segreto, non avrebbero perso tempo a formare altra loggia. Nella tensione verso la totale conoscenza dell’universo, senza disfarsi delle pratiche massoniche che offrivano garanzie di maggiore coesione e minori probabilità di deflessioni per i componenti, sentendosi sempre parte della grande famiglia dei franchi muratori istituirono la Loggia Prima, giurando sulla Bibbia aperta al Vangelo di San Giovanni. Composta allora solo da sette persone, il seguito venne da sé e la neonata loggia crebbe naturalmente e con le modalità e le caratteristiche che avevano previsto. Grazie anche all’acquisizione della verità assoluta che non ci si doveva limitare a ritrovarsi e a vivere nel nome del Grande Architetto dell’Universo. Ma che era necessario essere, almeno, “come” il Grande Architetto e cercare d’essere lo stesso Grande Architetto, cioè Dio. E se ancora loro non erano come Dio, d’intralcio c’erano la morte, acciacchi e malattie che sinora non avevano saputo scongiurare, tuttavia erano sulla buona strada per diventarlo. Se non loro stessi, lo sarebbero diventati i discendenti. A iniziare dalla madre di Ariel fatta dell’essenza dell’aria che, a pochi metri, non smetteva di leggere, di nuotare nelle parole per emergere dalle lettere intrisa di conoscenze. Aveva letto molto anche lui, certamente, moltissimo. Le sue appassionate letture avevano contribuito a far scaturire e a nutrire, innanzitutto, l’imprescindibile certezza che un domani, ormai divenuto oggi, l’intera forza dell’universo si potesse imbrigliare, assoggettare, sottomettere e amministrare, interamente e come desiderato. E non sarebbe stato onnipotente chi fosse stato in grado di gestire il cosmo come un giocattolo telecomandato? La notte della separazione, sulla Sessantottesima, chiese proprio questo ai fratelli della precedente loggia e il Maestro Venerabile e altri insulsi e beceri asserirono che mai si sarebbero spinti tanto in là, che un massone doveva tenere i piedi sulla terra e che lo Statuto e il Regolamento dell’Ordine vietavano “voli pindarici.” L’addio dei “dissidenti,” come li avevano chiamati, fu conseguente e coloro che, senza cadere, iniziarono a cabrare librandosi ad altezze impensabili, ma non vertiginose, furono i componenti della costituenda Loggia Prima. Scelsero gli elementi di spicco e più affidabili, i migliori cervelli delle aziende chimiche, meccaniche, edili, degli impianti di raffinazione e trasformazione, degli studi di progettazione e di laboratori di loro proprietà, e fondarono una società per azioni, l’Hillman Corporation, il cui primo scopo fu di individuare dove, maggiormente, si concentrava l’energia sul pianeta Terra. Erano dati scientifici da chiunque accettati che le energie cosmiche fossero anche entità materiali e misurabili, che somme di energie potessero accumularsi più in determinati luoghi e meno in altri e che, nel tempo, questi spazi si trasferissero altrove e mutassero i riferimenti spaziali, le coordinate rispetto ad altri spazi. Così, sulla Terra, cambiavano i luoghi dove più si addensava l’energia dell’universo. Luoghi, spazi, “punti” riconducibili, per esempio, agli “onfalos,” gli ombelichi del mondo degli antichi greci dove convergevano le correnti telluriche, i fluidi elettromagnetici della Terra che, quando si combinavano con le radiazioni cosmiche, determinavano zone con proprietà straordinarie. Effettuate da gruppi di lavoro della società, rilevazioni dimostrabili e riproducibili attestarono che esistevano, allora come ora, tre siti sulla Terra in cui la presenza, la “venuta” d’energia cosmica risultava preponderante in relazione a ogni altro punto della Terra.Questi tre spazi erano stati individuati in Neblina, Montsegur e in Italia, in un paese, una cittadina che aveva visitato di persona, ma di cui Joseph non ricordò il nome. Forse perché una voce di fata, la voce della nipotina, cordialmente, indicava: «Il cordless, nonno, non hai sentito? Sei diventato sordo? Cercano te. Sbrigati!»
(da Giovanni Nebuloni, Viaggi inattesi, Edizioni Amande, Treviso, 2013)
La nostra rivista si è spesso occupata della produzione narrativa di Giovanni Nebuloni. Ecco un elenco degli articoli già pubblicati, a opera di vari redattori: «La testa era collegata a fili che pendevano dall’alto» Realtà e finzione nel “fact-finding writing” Una tela di mistero tessuta da religioni, servizi segreti e amore Nel ventre profondo della divinità Dalla metropolitana alla steppa mongola Un oscuro enigma di 3500 anni fa Un rapido succedersi di abili e sorprendenti colpi di scena «Il “doppio” può essere la morte» La polvere eterna di Giovanni Nebuloni«È una ”kippot”, non devi toccarla!»
Nicola Marzo
(LucidaMente, anno VIII, n. 86, febbraio 2013)