In Italia alcuni programmi elettorali guardano all’Europa e “promettono” benessere, ma con incertezze e poca attenzione a iniziative come il Progetto Bes
Il 2013, che vanta al suo esordio una vivace campagna elettorale, potrebbe segnare l’ingresso nella politica italiana della “felicità”. Uno specchietto per le allodole? La perplessità è lecita: l’utilizzo di questa parola, del resto, richiede cautela. Parlare di felicità è operazione tanto impegnativa quanto astratta, sia per un antico legame con la democrazia, sia per le crescenti misurazioni internazionali in merito alla qualità della vita, al benessere psicologico e a tutto ciò che può rivelare lo stato di salute di un paese.
Eppure, tutto ciò non scoraggia l’uso – spesso incerto – del termine da parte di alcuni candidati alle prese con i programmi, primo fra tutti Beppe Grillo. Secondo il leader del Movimento 5 Stelle, infatti, «Il primo articolo della nostra Costituzione dovrebbe esprimere il diritto alla felicità». L’idea alla base del programma consiste in una serie di sondaggi on line che permettono agli elettori di scegliere i primi cinque interventi prioritari e, a Grillo, di impostare l’agenda politica. Felicità nel senso di partecipazione dal basso, dunque. In più, è curioso osservare come lo storico “diritto alla ricerca della felicità” della Costituzione americana sia oggi rivisitato come “diritto alla felicità” tout court.
Ma una democrazia, oggi come in passato, non può promettere un bene così variabile e soggettivo. Né deve imporre dell’alto dei canoni standard di benessere. Sarebbe già molto, per un governo, garantire a ogni cittadino le opportunità per lavorare sulla propria “qualità di vita”. È, quest’ultima, la questione al centro del lavoro di Gustavo Zagrebelsky, leader del movimento Libertà e Giustizia. Il giurista torinese si occupa da tempo del rapporto tra felicità e democrazia e previene le ingerenze dell’una nell’altra – tema ricorrente fra i suoi detrattori. A differenza di Grillo, però, Zagrebelsky pare schierare in campo soprattutto la componente ideologica della felicità. Ciò che non emerge, nei programmi di entrambi i leader, è il contributo di quanto è stato fatto e si sta facendo in materia di misurazione della qualità di vita. A prescindere dalla politica.
Da qualche anno in tutto il mondo si elaborano metodi per confrontare i paesi sul benessere generale. Istruzione, salute, lavoro, politiche sociali, ambiente, sicurezza e anche felicità – meglio definita benessere psicologico. Sono queste le variabili più ricorrenti nelle misurazioni «oltre il Pil», per dirla con Amartya Sen, Joseph Stiglitz e Jean Paul Fitoussi, che nel 2008 hanno confermato alla Commissione europea l’assoluta necessità di superare l’egemonia della dimensione economica. Il loro rapporto ha dato un nuovo impulso agli indici del benessere in Europa, mentre in Australia, Canada e Stati Uniti esistono già da qualche anno esperimenti analoghi.
E in Italia? Abbiamo, a nostra volta, un’iniziativa curata da Cnel e Istat, intitolata Progetto Bes — benessere equo e sostenibile. Un articolato programma di consultazioni popolari on line alternate a interventi di commissioni tecniche ha portato alla scelta di 12 indicatori che, insieme, concorrono a definire il benessere. Fra questi, anche la felicità. Al Progetto Bes non resta che iniziare le misurazioni, con veri e propri sondaggi su campioni selezionati. Ma, in attesa dei risultati, questi indicatori possono fornire innumerevoli spunti e informazioni sulle priorità del paese e degli italiani. E completerebbero, forse, una definizione di felicità con cui la politica, concretamente, può davvero confrontarsi.
Davide Daghia
(LucidaMente, anno VIII, n. 86, febbraio 2013)