C’è una nuova aria che spira dal Mediterraneo, e questa non vuole assolutamente essere una frase fatta, tantomeno un luogo comune. C’è un’aria completamente estranea a ciò che riteniamo di essere noi, in qualità di europei, tanto per prenderla alla larga. Un esempio di frase fatta è quella del tale professore che, parlando della situazione magrebina, ha esternato la presunta somiglianza di quel movimento con l’abbattimento del Muro di Berlino e la disgregazione del blocco sovietico.
Siamo talmente impantanati nel nostro eurocentrismo da non concepire nemmeno la possibilità che qualche cosa di “realmente nuovo” possa nascere al di fuori dei nostri labili confini mentali (e, perché no, geografici). Siamo talmente presuntuosi da sentire l’irresistibile desiderio di catalogare gli avvenimenti della storia contemporanea quali “cloni” di qualche cosa che, in un certo qual modo e in una certa qual epoca, abbiamo già vissuto noi in versione “originale”. Mai errore fu più immenso. Questo nasce dal fatto che riteniamo che un avvenimento sia nella migliore delle ipotesi marginale. O che, nella peggiore delle ipotesi, nemmeno sia da prendere in considerazione.
Siamo vecchi, il nostro è un mondo popolato e governato sempre di più da terze età, e sempre meno da gioventù. A volte questo elemento diviene talmente dominante da far invecchiare precocemente le menti di chi ancora ha trent’anni, ma forse anche venti. Le idee avvizziscono e scompaiono nel guscio di un’esistenza fin troppo facile; il desiderio di mettersi in gioco e rischiare qualche cosa in nome di un’ambizione sana si lascia inghiottire subdolamente dalla comodità di ciò che troviamo già pronto in tavola; la voglia di impresa lascia il posto alla maleducazione di pretendere un posticino riservato dentro la società che ci partorisce già incancreniti negli agi. Essere vecchi ha perciò due significati: il primo è quello biologico, il secondo è quello antropologico.
Essere giovani ha un significato molto più gustoso e interessante. Ed è quello che sta mostrando oggi il Maghreb, anzi, quello che il mondo arabo per la prima volta decisamente assaggia. Essere giovani vuol dire avere una marea di persone che scende in piazza colma di energie e stufa di essere mortificata. Energie derivanti non solo dai propri vent’anni: sono le energie di chi ha avuto una vita scomoda e stretta, e che da quella scomodità e da quella ristrettezza ha tratto idee nuove e forze fresche, giovani, tempestanti. Energie che nascono dalla necessità primaria di reinventarsi, come individui e come società, in sincronia. Energie che germogliano nella condivisione di un qualche destino, se vogliamo, e l’unico merito di quei despoti arricchiti alle spalle della popolazione è quello di averlo disegnato inconsapevolmente, quel destino. Ora il loro compito, il compito di Gheddafi, di Mubarak, di Ben Ali, è quello di subire quel loro stesso disegno.
La Storia, quella con la “s” maiuscola, ha un impareggiabile senso dell’ironia. L’errore europeo è quello di cercare di catalogare ciò che accade nel mondo arabo come un qualche cosa di “già avvenuto”, la riproposizione di vicende già viste e riviste. È un errore in cui cadono gli allocchi, oppure un errore di chi non riesce a capire la lingua del proprio interlocutore. O, ancora, un errore dei nostalgici, di chi perciò si è rassegnato al fatto di aver già dato tutto ciò che poteva. Ebbene sì, perché la Storia oggi si sposta, crea i propri artifici al di fuori del luogo privilegiato in cui fino a oggi ha operato, fuori dall’Occidente. Essa parla una lingua che da sempre, volenti o nolenti, ci è estranea. Perché, mentre essa è poliglotta e comunica in tutte le lingue del mondo, privilegiandone a volte una, a volte l’altra, noi siamo vecchietti intrisi del nostro povero e scarno dialetto, vecchi che utilizzano parole obsolete per spiegare cose che con questo dialetto nulla hanno a che fare. Siamo stranieri nei confronti del movimento del mondo, extracomunitari della Storia, e le conseguenze potrebbero essere imprevedibili, molto difficili da accettare.
Ora, la domanda che più volte nel corso della storia ha dato vita a idee nuove, oggi ci suona estranea e fastidiosa: “che fare?”. Ci suona fastidiosa perché non possiamo fare proprio nulla di fronte al voltafaccia della Storia, col nostro confrontare il Muro di Berlino (quando già esistevano le idee e le energie per superare quella terribile fase, in quanto tutti eravamo giovani, forti e belli) con l’ondata araba di cui oggi siamo incompetenti spettatori. Il “che fare?” è un puro gioco di vizio per noi, giacché propriamente non abbiamo la più pallida idea di che cosa debba essere fatto, e anzi: non possiamo farci proprio nulla perché quella vicenda noi non la capiamo. E non la capiamo perché siamo vecchi satiri senza idee, abbarbicati nelle nostre roccaforti antiche di secoli delle quali non possiamo più neanche spalancare le porte visto che ne abbiamo perduto le chiavi.
La Storia, si sa, bussa alla porta dei popoli senza presentarsi, e oggi ha volto il suo sguardo lontano (ma non troppo) da noi, forse stufa della nostra incapacità di agire, di reinventarci nuovamente. Essa avrà il suo corso, che sarà sanguinario e virulento, come sempre, e che creerà condizioni di fronte alle quali saremo impreparati, da bamboccioni viziati quali siamo. Sarà il fondamentalismo a farla da padrone? Oppure si instaurerà un qualche cosa che possa appianare quel campo di battaglia e renderlo fertile di civiltà in breve tempo? Queste domande sono senza senso, visto che a porle è un vecchietto europeo che non riesce a uscire dai propri stupidi confini, un po’ per pigrizia, un po’ per impossibilità. Fatto sta che potremmo essere definitivamente usciti dall’occhio del ciclone, condannati a rimanere spettatori infermi per molto molto tempo, e questo spaventa ancora più di una guerra, ancora più di un popolo che rovescia un despota, sia esso in turbante, o in cravatta e vestito. Poco importa, perché la storia corre sempre nuda, e ancor più, mette chiunque a nudo.
E noi, al contrario di altri che oggi mostrano grande vigore e nessun timore, ci vergogniamo del nostro corpo decrepito e malandato, mostrando persino la paura di una nuova idea, il timore di fronte alla marea della gioventù, il terrore di perdere la nostra povera mediocrità. Quando ancora l’Europa era giovane e forte, piena di acciacchi e di voglia di ripartire, il generale Charles de Gaulle disse: «Peggio che morire, è l’esser dimenticati». Oggi de Gaulle è da qualche parte laggiù, nelle vicinanze di Tripoli, lontano tremila chilometri da Parigi, a mostrare con la forza delle idee la volontà di non essere dimenticato. E sappiamo già che ci riuscirà.
L’immagine: particolare de Il massacro di Scio (1823-24, olio su tela, Parigi, Louvre), di Eugène Delacroix (Saint-Maurice, 26 aprile 1798 – Parigi, 13 agosto 1863).
Riccardo Dal Ferro
(LucidaMente, anno VI, n. 64, aprile 2011)