Nella pubblicazione “Il ’68 quarant’anni” dopo (Edup) Franco Ferrarotti analizza quel movimento
La protesta accompagna l’indignazione, quindi si apre un serrato scontro ideologico. Le contestazioni avvenute nel 1968 e negli anni seguenti delineavano una sofferenza sociale, che sfociarono in una radicale rivolta di piazza. Nel libro Il ’68 quarant’anni dopo (edizioni Edup, pp. 144, euro 12,00) il celebre sociologo Franco Ferrarotti – all’epoca “barone” universitario che appoggiò, ma anche criticò molti atteggiamenti dei “sessantottini” – esamina i diversi aspetti di un evento “di lunga durata”. Citiamo alcuni passi del saggio, come se fossero le risposte alle domande di un’immaginaria intervista.
Si pensa al Sessantotto… e si opera un collegamento con il terrorismo rosso…
«Il ’68 come il ’48, come il 1989. Ci sono date che non sfuggono a un destino ambivalente. Restano come spartiacque, segni di contraddizione: vilipesi o esaltati. Forse è vero che una rivoluzione è la sola emozione che un popolo può dare a se stesso. Difficile offrirne – afferma Franco Ferrarotti nel volume – una testimonianza affidabile, una valutazione equilibrata. Si dimentica troppo spesso che i vizi sono solo virtù impazzite e che, d’altro canto, la virtù non ha il monopolio della verità. L’opinione comune getta sul ’68 accuse pesanti. Vi scorge le radici della violenza armata. Lega in una responsabilità comune ’68 e terrorismo. Ma i due fenomeni, come genesi, scopi, movenze e stile comportamentale, mi sembrano radicalmente differenti. L’imputazione causale degli storici sarebbe difficile da provare. Una contiguità non può essere la base per una dichiarazione di correità. Il ’68 canta. Il terrorismo spara. Il nesso causale che molti scorgono fra ’68 e terrorismo è frutto di pigrizia mentale quando non derivi da pregiudizi».
Periodo storico sicuramente propositivo per l’Italia, il Sessantotto ha contribuito a migliorare la società italiana, senza tralasciare le debolezze e le criticità del movimento culturale…
«Le debolezze, d’altro canto, del ’68 sono evidenti e ormai sotto gli occhi di tutti. Alla sua generosità – continua Ferrarotti – non ha fatto da supporto una analisi delle forze in gioco adeguata. Ancora una volta, specialmente in Italia, le esigenze etiche si sono tradotte e ridotte ad atteggiamenti estetici. Il ’68 non ha avuto i suoi philosophes. Ha dovuto contentarsi di letterati a corto di argomenti, innamorati dei loro gorgheggi, pronti a scambiare trovate stilistiche e le soluzioni verbali per innovazioni rivoluzionarie. Saint-Just ha ceduto il passo a Celentano. Come spesso è accaduto, ancora una volta hanno vinto i giocolieri della parola e delle idee. La cultura del ’68 si richiama e si esaurisce nelle “riviste” essenzialmente letterarie, prive di analisi strutturali delle contraddizioni economiche e sociali, a sicura distanza dalle ricerche sul campo, da cui, come si sa, i letterati anche “rivoluzionari” ma con la puzza sotto al naso stanno alla larga, ossessionati dal terrore della contaminazione da contatto. Possono salire sulle barricate, pretendendo “tutto e subito” oppure ritirarsi nella loro “stanza separata”. In ogni caso mostrano il più sovrano, aristocratico distacco dai problemi quotidiani delle masse di cui si dicono al servizio».
Con un’analisi più attenta potremmo individuare qualche fatto saliente che contribuì a rinnovare l’Italia. Fu necessario togliere vecchi pregiudizi, antichi dogmi. Ma, proprio in quest’ottica, cosa rappresentò il Sessantotto?
«Ogni fenomeno è una realtà che nasce, cresce, si sviluppa. Il ’68 è ciò che è stato. Io c’ero. Ne posso parlare perché l’ho vissuto. A New York, Trento, San Francisco, Roma, Parigi, Berlino. E’ stata una bella fortuna. Ma, prima ancora, nel ’64 – continua Ferrarotti – a Los Angeles, ne ho intravisto i primi passi, si potrebbe dire le prime prove d’orchestra, nel sobborgo-ghetto di Watts, con gli scontri, gli incendi e le devastazioni, e a Berkeley, nelle assemblee studentesche quando Mario Di Savio fingeva al microfono una lieve balbuzie per dare al discorso l’apparenza di una totale autenticità. Cominciava il free speech movement. Si lottava contro la guerra nel Vietnam e per l’emancipazione dei neri e delle donne. E’ stato bello: confuso, vociante, liberatorio, affaticante, rumoroso, tumultuante. A Roma, nell’università non ancora chiamata “La Sapienza”, sono stato forse l’unico professore ordinario, cattedratico, “barone”, a schierarmi a favore degli scopi innovativi del movimento, ma nello stesso tempo a dichiararmi decisamente contrario ai suoi metodi di attuazione».
E’ bene sottolineare che il Sessantotto coinvolse diverse piazze straniere al di fuori dell’Italia, non certamente la totalità del globo. Seppe unire il dissenso di altre persone abbattendo le frontiere culturali del sapere.
«Il ’68 non è stato un movimento mondiale. Ha coinvolto poco più di un quinto dell’umanità, quello opulento, in grado di fare il bagno o la doccia tutte le mattine con acqua calda. Mi ripeto. Posso parlare del ’68 perché l’ho vissuto. Io c’ero. L’ho vissuto a Roma e a Trento, ma anche – spiega Ferrarotti – nella Columbia di New York e a Berkeley, a nord di San Francisco. Ero già un professore ordinario, cattedratico, un giovane “barone” anomalo. Capivo e condividevo gli scopi finali del movimento. Ne criticavo, ne denunciavo duramente i mezzi e le tecniche, le iniziative pratiche e organizzative. In essenza, il ’68 è stato una protesta che non è riuscita a farsi progetto, cioè programma con le sue evoluzioni, con le sue scadenze nel tempo. Il ’68 è stato una sollevazione emotiva che non ha saputo tradursi in un piano nazionale di trasformazione sociale. Invece di produrre un mondo nuovo ha semplicemente confermato quello esistente, peggiorato. Ma l’esigenza, fortemente sentita, di un mondo nuovo è rimasta».
Certe manifestazioni riescono a raggiungere alti livelli di accettazione popolare, si assiste a veri e propri cambiamenti, nella sostanza, però, non c’è una rivoluzione in piena regola, bensì solo alcuni piccoli aggiustamenti. Quali furono le conseguenze del Sessantotto?
«Graffiti a parte, il ’68 ha dichiarato e incoraggiato inoltre, se non in teoria nella pratica quotidiana, l’obsolescenza delle “buone maniere”. Ha reso un poco ridicola – conclude Ferrarotti nel suo volume – la buona educazione, ma a torto. Andrea Caffi, un “socialista irregolare”, come fu a suo tempo definito in un libro che andrebbe ricordato (Critica della violenza, Milano, Bompiani, 1966, riedito da E/O), spende argomenti raffinati e logicamente cogenti per dimostrare che dalle “buone maniere”, in apparenza irrilevanti, dipende in realtà la tenuta, per così dire, di una società, il suo costume civile, quell’etica media di attenzione e di rispetto che già Leopardi, nel famoso Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, scorgeva piuttosto carente nella Penisola, come ancora recentemente ho potuto notare (in Vita e morte di una classe dirigente, Roma, Edup, 2006). Mi pare degna di considerazione l’ipotesi che la lotta del ’69 contro il potere e l’autorità autoritaria dei padri abbia trovato poi, nel 1978, il proprio involontario e imprevedibile compimento nel sequestro di Aldo Moro, autentico parricidio destinato a svegliare la coscienza degli italiani e a far loro comprendere i limiti della loro democrazia incompiuta. Il ’68 conteneva ed era portatore di novità positive, segnalava l’esigenza di una socializzazione del potere al di là della democrazia aritmetica o di pura procedura, invocava, anche inconsapevolmente, un nuovo concetto di cittadinanza, inclusivo e non esclusivo. Tutto ciò è stato eliminato e sepolto dalla violenza armata del terrorismo. In questo senso, il terrorismo è stato la tomba del ’68. Alcuni meriti del ’68 sono riconosciuti: una più articolata coscienza di classe; la maggiore attenzione ai diritti individuali; il riconoscimento del ruolo e dell’apporto delle donne; la difesa dell’equilibrio eco sistemico; la rivendicazione della più ampia libertà di parola e di presenza, anche per gli emarginati e gli esclusi, per i “dannati della terra”; la necessità di far prevalere l’essere sull’avere, di non trasformare i valori strumentali in valori finali, di preferire il dubbio critico al dogma pietrificato. Ma generalmente si esita ancora ad accettare un contributo fondamentale del ’68, vale a dire l’aver fatto comprendere che c’è più politica fuori dalla politica, nei problemi apparentemente minuti della vita quotidiana, che non dentro i sontuosi palazzi della politica ufficiale».
L’immagine: la copertina de Il ’68 quarant’anni dopo di Franco Ferrarotti.
Francesco Fravolini
(LucidaMente, anno VI, n. 63, marzo 2011)