La profezia del “1984” di George Orwell: la crisi dei rapporti umani e il declino della libertà individuale
Osservando la realtà quotidianamente vissuta da ogni cittadino dell’epoca contemporanea, possiamo affermare che le nostre giornate sono investite da una continua ed inarrestabile evoluzione tecnologica, bombardate da messaggi pubblicitari e da trasmissioni televisive che non solo propongono falsi modelli di riferimento, ma impongono stili di vita inautentici e superficiali.
Come nelle narrazioni più drammaticamente distopiche, anche intorno a noi assistiamo impassibili ad uno svilimento dei sentimenti e dei rapporti affettivi: basta dare un’occhiata ai palinsesti quotidiani per rendersi conto che l’amore e la tenerezza sono diventati prodotti di consumo, mercificati, per stare al passo con l’associazione dei consumatori incalliti.
Quella attuale è la “società del Grande Fratello”, e non stiamo certamente pensando al famoso reality che occupa una posizione di rilievo nella programmazione mediatica, ma al geniale romanzo 1984 dello scrittore britannico George Orwell, considerato, a distanza di sessant’anni, assolutamente profetico e tristemente attuale.
La vicenda è ambientata sullo sfondo di uno Stato soffocato dal giogo totalitario di un fantomatico Big Brother, la cui gigantografia tappezza ogni angolo delle città, e tra le pieghe di una società costruita su una menzogna palesemente accettata: il protagonista, Winston Smith, è uno degli addetti alla rettifica delle notizie storiche e deve modificare quotidianamente le informazioni dei giornali, bruciando le documentazioni scartate, ma che nei giorni precedenti erano diffuse come vere. Una civiltà fondata sulla contraddizione, quindi, normalizzata tramite la pratica del “bipensiero”, una sorta di ginnastica mentale che allena ad accogliere simultaneamente due concetti contrastanti, accettandoli entrambi. I cittadini sono sorvegliati da un comando di polizia onnipresente che, attraverso teleschermi costantemente accesi, controlla non solo ogni aspetto della quotidianità, ma anche ogni piega della mente umana.
Il teleschermo diventa strumento di controllo visivo totale, metafora dell’occhio divino, ma contemporaneamente vuoto simulacro: il medium proietta l’immagine di un controllore fantomatico, che nel corso della narrazione scopriremo essere inesistente. È una distopia senza speranza, quella dello scrittore inglese, calata in un ambiente in cui la comunicazione è impossibile e in cui la ribellione isolata dell’antieroe è inesorabilmente sterile: i dissidenti semplicemente spariscono (dopo atroci torture non solo fisiche, ma anche e soprattutto psicologiche) e i loro nomi vengono cancellati dagli archivi; ogni traccia delle loro azioni viene rimossa e la loro stessa esistenza di un tempo viene dapprima negata, quindi dimenticata.
La data rovesciata in cui si svolge la vicenda (il romanzo fu concluso nel 1948) indica un futuro prossimo all’epoca dell’autore, ma già passato rispetto alla contemporaneità. Se è vero che la profezia orwelliana del totalitarismo immortale sembra non essersi avverata, è vero anche che la società di oggi si avvicina a quella tecnocrazia descritta nel romanzo, con una diffusione endemica di mezzi di comunicazione di massa che, se ancora non ci controllano, di certo influenzano il nostro stile di vita e il nostro linguaggio. Viviamo immersi in una tecnologia che annulla le distanze e agevola i contatti tra le persone, ma che impedisce l’instaurarsi di vere relazioni. L’uomo contemporaneo, incapace di comunicare, sempre più spesso ricorre a surrogati artificiali di affetto, stringendo legami fragili e superficiali attraverso internet e comunità virtuali ed esprimendosi meccanicamente tramite e-mail e sms, in cui le parole non vengono nemmeno riportate nella loro interezza, ma spezzettate e contratte, proprio come nel New Speak (la nuova lingua parlata in 1984, caratterizzata da un depauperamento del lessico e una distruzione delle parole, per restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero e rendere impossibile il ragionamento critico).
Nell’epoca attuale molti rapporti sono frivoli e vengono spesso considerati alla stregua di merci di scambio, prodotti di consumo: la fiducia è soppiantata dal sospetto universale e gli impegni vengono di frequente sottoscritti avendo in mente opzioni di annullamento, mentre l’obsolescenza programmata che investe i beni di consumo si estende anche alle relazioni umane. Oggi per “Grande Fratello” non s’intende più qualcuno o qualcosa da temere, ma un prodotto mediatico, un traguardo discutibilmente ambizioso per più-o-meno-giovani affamati di popolarità. Così, mentre le nostre esistenze paiono trascorrere in un’attualità senza fine e l’avvenire sembra essere fuori dalla nostra portata in un mondo dominato dalla precarietà e dall’incertezza, milioni di persone fanno a gara per essere sotto l’onnisciente controllo di telecamere e per mettere la propria vita in bella vista, alla disperata ricerca di notorietà. Intorno al cittadino contemporaneo quasi nulla sembrerebbe rimanere del Big Brother di orwelliana memoria, ma, a ben vedere, nelle nostre città ci sono telecamere di videosorveglianza piazzate ovunque, le linee telefoniche sono facilmente intercettabili, così come le comunicazioni via Web.
Il privato non esiste più: non solo diventa pubblico, ma tramite la navigazione in rete può diventare globale. Se riflettiamo poi sul fatto che l’obsolescenza dei prodotti e l’incessante e rapidissima evoluzione delle mode costringono l’individuo ad adeguarsi e a trasformarsi in continuazione, pena la stigmatizzazione sociale, ci rendiamo conto che chi non resta al passo con i tempi non può essere accettato nella civiltà del consumo infinito, che obbliga la persona a diventare automa, indossando identità momentanee, usa e getta come le merci che acquista. Anche la nostra società si basa allora su menzogne palesemente accettate? Siamo realmente disposti a sacrificare la nostra autenticità per assecondare tendenze passeggere o per ricercare quella che chiamano “popolarità”?
Nel prossimo futuro probabilmente le relazioni saranno condizionate in modo crescente dalla già elevata pregnanza dei rapporti virtuali, dalle manipolazioni dell’ingegneria genetica, dalla falsa sicurezza ricercata in droghe e psicofarmaci. L’essere umano sembra cercare di autocostruirsi come più gli piace e di modificare artificialmente non solo il proprio fisico, ma anche e soprattutto la propria personalità, rischiando però così di diventare artificioso e inautentico, burattino immerso in un mondo virtuale e ipertecnologico, che, come l’Oceania di Orwell, non conserva tracce di umanità.
L’immagine: copertine di alcune tra le tante edizioni italiane Oscar Mondadori dell’inquietante libro di George Orwell e la locandina del film (1984) di Michael Radford tratto dal romanzo.
Michela Allegri
(Lucidamente, anno V, n. 59, novembre 2010)