Seconda nostra intervista in esclusiva a Maurizio Pallante, fondatore del “Movimento per la decrescita felice”
Sicuramente può risultare difficile, quasi irrispettoso, parlare di decrescita in un periodo di crisi e recessione economica. Quando manca il lavoro, aumenta la disoccupazione e diminuiscono i consumi, l’ultima soluzione che ci viene in mente è decrescere. Eppure c’è una differenza formale e sostanziale tra un’economia tendenzialmente e continuamente fondata sulla crescita del prodotto interno lordo – la nostra – che vive un momento di crisi, e quindi non raggiunge gli scopi prefissati, e un’economia diversa, sostenibile, che vede nella sobrietà, nell’equilibrio, e quindi nella diminuzione dei consumi, la propria ragion d’essere.
Dopo averlo già fatto poco più di un anno fa (Gli “esodi transcontinentali”: un dramma dello “sviluppo”, in LucidaMente, n. 41, 2009) abbiamo intervistato nuovamente Maurizio Pallante, ideatore, ispiratore e, attualmente, presidente del Movimento per la decrescita felice.
Se consideriamo la decrescita come una rivoluzione, quale potrebbe essere il punto di partenza di questo grande cambiamento: la cultura e l’educazione, l’impresa e la produzione o la politica e le amministrazioni?
«La decrescita per poter partire ha bisogno di svilupparsi in tre direzioni che sono esattamente quelle citate. Se vogliamo utilizzare un’immagine rappresentativa, queste tre direzioni sono come uno sgabello a tre gambe, ognuna delle quali è fondamentale affinché lo sgabello rimanga in piedi. Così la cultura e l’educazione diventano fondamentali perché, se le persone e i cittadini sono convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, ogni cambiamento diventa utopico; se, invece, avvertono tutte le insufficienze dell’attuale stile di vita e di tutti i disagi che esso comporta, allora possono essere stimolati a cambiare direzione. Accanto a questo elemento è altrettanto importante la rivoluzione tecnologica delle imprese. Noi viviamo in un sistema industriale che da due-trecento anni è completamente basato sul continuo aumento di produzione di merci. Al contrario, dobbiamo utilizzare il patrimonio scientifico e tecnologico che possediamo per ridurre la nostra impronta ecologica e per limitare il prelievo delle risorse rispetto al nostro fabbisogno. La scienza e la tecnica devono essere sempre guidate dall’etica, il che vuol dire, in questo caso specifico, un atteggiamento più responsabile nei confronti di coloro che non si possono difendere e quindi degli animali, delle piante, del terreno e soprattutto delle generazioni future. Ovviamente entrambe queste due piccole rivoluzioni hanno bisogno di essere promosse e sostenute dalla politica e dalle amministrazioni, che rappresentano la terza gamba del nostro sgabello, senza la quale ogni cambiamento risulta impossibile».
È possibile parlare di ecologia e decrescita senza adoperare un linguaggio forte e denso di parole come devastazione, catastrofe, calamità, o concetti come la sostenibilità?
«Quando noi parliamo di decrescita, tendiamo sempre a metterne in evidenza gli aspetti positivi, quindi le possibili soluzioni ai problemi attuali. È ovvio che innanzitutto è importante capire e riconoscere quali sono le problematiche e quindi sollevare critiche anche rigorose verso lo stato delle cose. Poi, partendo da qui, noi proponiamo una serie di interventi e cambiamenti che servono a migliorare la qualità della vita e sono in grado di frenare i problemi che la crescita ha creato all’ambiente senza avere timore di sottolineare l’urgenza con la quale devono essere affrontati».
La microeconomia e le microamministrazioni, come i Comuni virtuosi, possono essere un modello importante per la nostra società, oppure il cambiamento passa necessariamente dal grande capitale, dai “grandi” governi e dalle “grandi” organizzazioni?
«Personalmente sono assolutamente convinto che solo dalla somma di tante piccole soluzioni positive si possano ottenere dei grandi risultati. L’economia ha bisogno di tornare ad essere auto-centrata, e quindi la filiera corta e lo sfruttamento delle risorse naturali, energetiche e minerali dell’ambiente circostante sono l’unica possibile via d’uscita. Questo, ovviamente, non vuol dire economia chiusa: è possibile che io possa mangiare ogni tanto un frutto esotico ma non che questo possa accadere tutti i giorni andando a sostituirsi all’alimentazione e ai prodotti del territorio. Dunque, si può parlare di autarchia nel senso di una priorità verso le risorse del territorio e non una esclusività».
Tornando al problema politico, è possibile agire culturalmente su questa classe dirigente, portandovi dentro i valori della ecologia e della decrescita, oppure l’unico modo è bypassare “il sistema” e agire “antipoliticamente”?
«Io ho la sensazione che questa classe politica non sia riformabile perché è cresciuta con una cultura di carattere diverso, con delle dinamiche di potere che hanno fatto sì che i propri esponenti si ritagliassero uno spazio al di fuori della società, e siano quindi impermeabili a ogni sollecitazione differente. Occorre costruire un nuovo soggetto politico che abbia la capacità di radicarsi nei territori, che si fondi sulle lotte che le associazioni fanno contro le devastazioni che questa classe politica promuove, e che trovi la capacità di uscire dalla logica localistica in cui molti movimenti si muovono, per capire che ogni realtà di resistenza e di controproposta è uno spicchio di una visione del mondo diversa. Bisogna ripartire dall’associazionismo, dai comitati di lotta e da tutte quelle forme in cui si riunisce la società civile e cioè da quel tessuto di forze sane che contano politicamente molto meno di quanto potrebbero contare e che rappresentano l’unica vera ragione per cui la nostra società non si è ancora sfasciata».
L’immagine: l’ape “Pilli”, icona del Movimento per la decrescita felice.
Simone Jacca
(LM MAGAZINE n. 11, 15 luglio 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 55, luglio 2010)
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