Erroneamente si potrebbe guardare alla politica italiana come a un meccanismo “in ritardo” rispetto al trend che si sta sviluppando in tutto il nostro beneamato Occidente. È pura retorica (e di quelle scadenti oltretutto, perché fa un uso spropositato di luoghi comuni e categorie ormai decrepite) quella che vede nella macchina istituzionale e politica del Belpaese una sorta di rallentamento. In realtà, con buona pace di coloro che promuovono questi discorsi, l’Italia è l’avanguardia del post-moderno nella sua versione “linguaggio politichese”.
Il fenomeno politico italiano, che trova la propria apoteosi in quella che si ama chiamare “l’anomalia-Berlusconi”, è un esperimento assolutamente unico nel suo genere, non ritardatario, ma che anzi anticipa con un salto da record olimpico tutto quel lungo processo di trasformazione che la scena istituzionale e governativa del nostro blocco atlantico sta subendo da almeno tre decenni.
Sempre di più infatti vediamo che il fenomeno di “iconizzazione” del politico prende piede in Francia, Stati Uniti (più di tutti con l’arrivo di Obama, divenuto vero e proprio “feticcio”, al di là di qualsiasi presa di posizione a riguardo) e Germania. Qualche resistenza si incontra ancora in Inghilterra e Spagna, vere “ritardatarie” sulla tabella di marcia di questo inquietante processo. Sempre di più la politica diviene puro “spettacolo”, nel vero senso del termine: nulla oltre ciò che viene manifestato, un imbarazzante “niente” dietro ai volti di chi viene appiattito sullo schermo televisivo. Ma l’Italia, come dicevamo, è un pezzo avanti: noi siamo già immersi da ormai quindici anni in questo circo mediatico in cui la sostanza politica (come nelle opere di Warhol, in cui al di là dei volti seriali di Marilyn non si cela un bel niente) non è altro che la pura e semplice ripetizione (meglio ancora, riproduzione) di un volto, sotto il quale non si cela che l’assenza di qualsiasi significato. In Italia, largamente in anticipo sul resto del mondo, abbiamo raggiunto per primi in politica la totale epurazione di qualsiasi sentore di “senso” o referente, offrendo in pasto ai media (e quindi all’elettorato) il puro “segno”. Che altro è il volto di Silvio Berlusconi se non un segno televisivo?
Nella sua critica al movimento che si cataloga sotto la dicitura “post-modernità”, Jean Baudrillard (ne Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996, p. 22) ha avvertito con grande perspicacia e lucidità l’avvento di questo “appiattimento” della realtà, non solo politica, analizzandola bensì nelle scienze, nelle arti e soprattutto nella filosofia: La felice indistinzione del vero e del falso, del reale e dell’irreale, cede al simulacro, che invece consacra l’infelice indistinzione del vero e del falso, del reale e dei suoi segni, il destino infelice, inevitabilmente infelice, del senso della nostra cultura. Il simulacro-Berlusconi, questo volto sempre nuovo, sempre livellato e sorridente, perpetuamente “re-artificializzato” attraverso l’intervento di chirurgia che lo fa essere sempre di più l’allucinante somiglianza del reale a se stesso (sempre Baudrillard, ne Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 85): eccola, l’innovazione terrificante della politica italiana, della quale il premier altro non è che un segno, perciò un risultato: risultato di uno scambio prettamente simbolico in cui la coscienza dello spettatore-elettore ha barattato ben volentieri il senso per il volto, il significato per la superficie, annullandone la necessaria relazione reciproca; scambio in cui abbiamo perduto propriamente gli strumenti per analizzarlo, sia nelle sue conseguenze più prossime, sia in quelle più remote, quelle che investiranno i futuri scambi simbolici possibili, ammesso che ce ne possano essere altri (essi presuppongono infatti l’esistenza di una dialettica “senso-segno”, che oggi è tutta smantellata a vantaggio del puro segno).
Ecco dunque la berlusconiana Mediaset diventare l’istanza politica per eccellenza; e così, nello stesso modo, ma prendendo un arco di tempo un po’ più lungo e travagliato, la Rai, come è destino di tutto il “trasmettibile”: l’etere prende la forma del comizio politico, il volto del propagandista si trasforma in semplice segnale piatto, l’elettore è ricettivo soltanto nei confronti di questi fantasmi senza più profondità alcuna (e di fronte ad un dibattito di piazza storce il naso). Non siamo più nel regno della “contraffazione” (ed è in questo senso che l’attentato al premier del mese scorso non può essere considerato tale), perché già tutto il referente, già tutto il significato è contraffatto in partenza: siamo nella pura simulazione, riproduzione di forme in cui il politico è libero da costrizioni di senso e perciò libero di cambiare “schieramento” (termine che esprime innocentemente tutta la contraddizione che stiamo tentando di far emergere) senza indispettire minimamente colui che gli ha inconsciamente dato il seggio. Già tutto è contraffatto, è un falso a regola d’arte, ma era solo in rapporto ad un’alternativa non altrettanto fasulla che esso poteva definirsi come tale. Oggi questa alternativa al “contraffatto” non esiste, e come tale la politica è divenuta semplice riproduzione di forme senza senso (giacché il senso mi deriva dal discorso dell’Altro, come insegna Lacan, ma questo Altro oggi non c’è). Il volto di Bersani e di Veltroni, riproduzioni mediatiche senza alcun referente reale (e per questo, iperreali); le parole di Fini a Fiuggi e le parole del Fini oggi; le considerazioni di Bossi su Berlusconi nel 1994 e gli abbracci tra Bossi e Berlusconi oggi. Tutto è contraffatto, ma una contraffazione senza l’alternativa “reale” non solo uccide la realtà, ma ne fa una simulazione, una “realtà virtuale”, trasmessa puntualmente in “tempo reale” (e rimandiamo a tutte le analisi del già citato testo di Baudrillard, Il delitto perfetto, sulla critica al concetto di “tempo reale”), senza alcun ideale e, peggio ancora, senza alcun senso. Pura retorica, semplice schermo. Piatto, innocuo ed asettico.
È per tutto ciò che ci sentiamo di riprendere puntualmente l’espressione con cui si apriva questo articolo: “erroneamente si dovrebbe guardare alla politica italiana come a un meccanismo in ritardo”. Il trend occidentale è tutto rivolto verso questa “spettacolarizzazione” del mondo politico (abbiamo ancora negli occhi i servizi dei media statunitensi, servizi prolungati e non certo episodici, sulla famiglia Obama che festeggia Halloween con il simpatico trick or treat, vero?), sembra un cammino inarrestabile in cui il politico somiglia sempre di più all’attore e sempre meno ad un rappresentante (e non è un caso che una delle vittime illustri del post-moderno sia proprio il concetto di “rappresentazione”). E l’Italia è, per la prima volta dal Rinascimento, l’avanguardia di questo movimento. Probabilmente non dobbiamo vantarcene, noi che ancora riusciamo a prendere le distanze in maniera critica di fronte a questa attualità senza sostanza, almeno non come potevamo vantarci di Michelangelo e Leonardo. Ma, al di là dei giudizi di valore, l’analisi lucida che dobbiamo fare è questa: se il senso e l’ideale non fanno più parte della politica, in quanto essa è divenuta puro spettacolo, simulazione, così come il meccanismo del voto è diventato sondaggio, “test” nel vero senso del termine, allora… Se il politico è artificiale ed artificioso, interscambiabile e chirurgicamente modificabile come la ruota della mia automobile, allora…
“Allora” designa il confine entro cui porre il problema, entro cui riflettere effettivamente su quale sia il (non) significato di questa nostra contemporaneità italiota, quest’avanguardia infernale che sembra ingurgitare tutto. Porre l’accento sull’inutilità, sull’insignificanza di tutto questo meccanismo è evitare semplicemente il problema, è incrociare le braccia sulla vedetta del Titanic mentre l’iceberg si avvicina a velocità ragguardevole. Guardare oltre quel volto impomatato e artificiale è invece il compito pregnante di questa nostra generazione che s’appresta ad affacciarsi sull’iperrealtà che ci disarma. Ritrovare il corpo del sovrano, per smascherarne la nudità, come ai bei tempi in cui il re aveva ancora una testa da mozzare. Non basta probabilmente spegnere il televisore, l’etere è dappertutto, si insinua come una malattia e bagna senza pietà ogni angolino in cui possa ancora annidarsi un sentore di realtà; e, se non ci si sbriga a fare qualcosa, se almeno non si inizia a porre seriamente e propositivamente la questione, ognuno dal campo che occupa, ci troveremo presto in un salotto simile ad una sala cinematografica, occhialini sul naso a guardare la prossima campagna elettorale tra due automi senza significato, rigorosamente in 3D.
L’immagine: particolare de Las meninas (1656-1657, olio su tela, Madrid, Museo del Prado) di Diego Velazquez (Siviglia, 1599 – Madrid, 1660).
Riccardo Dal Ferro
(Lucidamente, anno V, n. 55, luglio 2010)