La risposta di uno degli autori di “Elogio delle minoranze” (Marsilio) alle critiche piovute sul libro
Pubblichiamo di seguito il testo di Franco Motta, coautore con Massimiliano Panarari del libro Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell’Italia (recentemente uscito per Marsilio, pp. 224, € 16,00), in risposta alle critiche avanzate dagli articoli di Corrado Ocone (Il fascino indiscreto delle élites “virtuose”, Corriere della Sera, 22 luglio, p. 10) e di Marcello Veneziani (Le “minoranze virtuose”? Una leggenda da salotto, Il Giornale, 23 luglio, p. 20) nei confronti delle tesi della pubblicazione. Per chi volesse leggere una recensione della nostra rivista: Quei «virtuosi» che avrebbero potuto salvare l’Italia.
La stampa che un tempo si sarebbe definita “moderata” ha liquidato senza appello l’«Elogio delle minoranze» da poco uscito per Marsilio. Leonardo Rossi sul «Secolo d’Italia», Corrado Ocone sulla «Lettura» del «Corriere della Sera» e Marcello Veneziani sul «Giornale» hanno tirato fuori dalla naftalina il vecchio abito della sinistra radical-chic (lo stesso che indossava Sartre, presumo, decisamente un po’ démodé) e lo hanno cucito addosso al sottoscritto e al coautore, l’amico Massimiliano Panarari. Gramsciani di ritorno, agit-prop neoleninisti, teologi di una storia a tesi a uso di una sinistra laica in cerca di idee: questo, nella sostanza, il menù che ci è stato sfornato.
Ringrazio sinceramente i censori dell’attenzione che ci è stata riservata, visto che il dibattito delle idee è sempre e comunque segno di discreta salute. Tuttavia mi sembra il caso di puntualizzare. In nessuna delle recensioni si prende in considerazione l’oggetto del libro: la proposta di una lettura storica della mancata modernizzazione dell’Italia che parte dalla mancata riforma religiosa del Cinquecento e arriva al liberalismo progressista di Giustizia e libertà. Uomini, gruppi, lotte politiche e sociali che si sono combattute nel corso di quattrocento anni di storia italiana e che nel corso delle pagine descriviamo e analizziamo in dettaglio scompaiono come ombre al crepuscolo nelle recensioni citate. Chi le leggesse non capirebbe davvero di cosa parla il nostro volume. Di oltre duecento pagine sono prese in considerazione soltanto le prime quindici, quelle dell’introduzione, in cui tracciamo la proposta teorica che fa da sfondo alle storie raccontate successivamente. Troppo faticose, forse, per essere prese in considerazione; i tempi giornalistici sono quello che sono e, insomma, non si pretenderà mica che per giudicare un volume tocchi anche leggerlo.
Ci si accusa di non avere scritto da storici, ma da ideologi. Lo fa Rossi, accusandoci di venerare «il mito della nazione antropologicamente portata a essere schiava di demiurghi» (quando scriviamo esplicitamente di essere contrari a qualsiasi pretesa lettura antropologica di una minorità italiana) e di sostenere, somma eresia, che «esiste un elitarismo reazionario che impedisce il progresso collettivo a vantaggio di una minima parte della società». Forse andrebbe spiegato al nostro recensore il perché, dall’altra parte dell’Atlantico, quest’anno stesso il più interessante movimento di contestazione del capitalismo finanziario americano abbia scelto di proclamarsi «the 99%»; o forse gli andrebbe ricordato che Mrs. Thatcher e Mr. Reagan non sono stati un’invenzione dei sindacati ma due personaggi in carne e ossa che hanno cambiato – in negativo, secondo noi – il corso della storia del tardo Novecento.
Marcello Veneziani, dal canto suo, certo con maggiore raffinatezza, ci rimprovera di non avere preso in considerazione le élite di destra che hanno contribuito alla crescita dell’Occidente. Mi auguro che voglia proseguire il discorso perché, purtroppo, di queste élite conservatrici di sviluppo – inevitabile l’ossimoro – non ne cita nemmeno una: e non saprei nemmeno io, malgrado gli sforzi, offrirgli qualche spunto (spero che i soliti Evola e Pound siano lasciati ai camerati di Forza nuova perché, sinceramente, non ne possiamo più). Egli pure ci accusa di forzare la storia. Per dimostrarlo ricorre alle pie leggende dell’epoca della Restaurazione, ricordando pretese decine di migliaia di morti fatti dai giacobini italiani nel 1796-99: un evento mai registrato dalla storiografia, purtroppo, e che immaginiamo possa essergli stato rivelato con il terzo segreto della Madonna di Fatima. Ma, si sa, a noi atei tali rivelazioni non sono date.
Corrado Ocone sferra contro di noi l’arma finale: non rispettiamo il metodo storico, facciamo una storia a tesi che è null’altro che mera retorica, facciamo la «storia prammatica», come dice il suo autore di riferimento, Benedetto Croce (alla faccia dell’aggiornamento storiografico), ossia la storia al servizio dell’ideologia. Della lunga bibliografia in calce al volume nemmeno una parola; la immaginiamo troppo lunga e impegnativa per chi si muove nei rigidi termini dell’elzeviro. Della nostra interpretazione della lotta religiosa del Cinquecento italiano, delle vicende del metodo sperimentale in Italia, del positivismo, del cooperativismo, manco un accenno. Mere invenzioni retoriche? Utilizzo strumentale di dati, documenti, testimonianze? Selezione partigiana e mistificatrice di temi? Non è dato sapere. Basandosi unicamente sulla sua recensione, il lettore potrebbe credere che l’«Elogio delle minoranze» parli di cricket, cucina fusion, cool jazz o quant’altro ancora. Senza contare che Ocone conclude sostenendo che è la primazia delle corporazioni il vero ostacolo allo sviluppo storico del nostro paese: esattamente quanto scriviamo noi, prendendoci pure l’incomodo di spiegare il perché e il percome e di collocarli in un contesto storico di lungo periodo. Peccato, ma è una lezione: la prossima volta, anziché documentarci a fondo e riportare dati e fatti, citiamo una frase di Croce e siamo a posto. È il giornalismo, bellezza.
Finalmente, e con serenità, abbiamo scoperto un’altra caratteristica intellettuale della destra, liberal-crociana o post-berlusconiana che sia: la storia non dev’essere altro che cronaca, che racconto di fatti – magari senza verifica delle fonti – privo di profondità critica. L’interpretazione è di per sé retorica, peggio, ideologia. Assai meglio Rodolfo il Glabro di Fernand Braudel: almeno è più divertente leggere dei miracoli dell’anno Mille che non cercare di capire perché il ritorno della signoria feudale nel Seicento e le campagne di predicazione dei cappuccini andassero di pari passi. Ah, la noia…
Franco Motta
(LucidaMente, anno VII, n. 80, agosto 2012)
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