Una Milano ben diversa da quella attuale, egoista, leghista, rinchiusa in se stessa: al contrario, una Milano viva, popolare, povera, a volte “violenta”, ma ricca di umanità. È il capoluogo lombardo del secondo dopoguerra descritto dal milanese Gianni Lombardi, nel suo romanzo autopubblicato nel 2009, Di azzurro solo il cielo.
Un libro che meriterebbe migliore veste editoriale: ben scritto, con uno stile vivace, ironico-sarcastico, dai periodi molto brevi, a volte di una sola frase, per cui le virgole sono quasi assenti nella costruzione sintattica. Essendo la narrazione di tipo memorialistico, l’io narrante corrisponde quasi totalmente all’autore, ma la scelta è efficace e funzionale appunto alla tipologia narrativa, con una sorta di flusso di coscienza-immersione nel passato, a volte elegiaco. I sentimenti espressi, infatti, vanno dalla malinconia, alla rabbia repressa, alla memoria nostalgica. Bellissima la ricostruzione dell’epoca e della società, con i suoi pilastri costituiti da Chiesa-scuola-famiglia, e la rievocazione della ricchezza umana (numerosi i ritratti taglienti) e sociale delle “case con la ringhiera” e dei vecchi quartieri meneghini.
Del libro offriamo come “assaggio” un breve brano in cui si “racconta” di una invernale partita di pallacanestro sui generis. Si noti la “trovata” di minuscolizzare i nomi dei personaggi.
Il gelo invernale non rallentava la nostra attività ludica, plasmava piuttosto forme alternative tipo pallacanestro. Agganciato al muro del cortiletto faceva bella mostra di sé un cerchio di ferro… residuato bellico. Ne approfittammo. Regole minime dal circondario e decisione di sfidare quelli di corso ventidue marzo 18 e 20. Squadre di tre giocatori. Il fazzoletto di asfalto impediva grandi manovre. C’era la difficoltà di fare entrare gli ospiti all’insaputa di mamma. Ci pensò la quinta colonna con una prudente sorveglianza dei suoi movimenti. Appena si allontanava dalla portineria semaforo verde.
Il meeting sportivo si teneva nel pomeriggio avanzato per merito di una lampadina abbandonata sopra l’uscio dei decol. Indifferenti al freddo… maglioncini cappotti a terra e sotto con la palla. Si esultava per i propri canestri invocando palesi irregolarità per quelli avversari. Talvolta le partite vedevano una spumeggiante presenza femminile. Anna Elisabetta e due o tre gallinelle supporter delle squadre avversarie. Parlottavano ridacchiando. Anna ce l’aveva con me quando cannavo qualche tiro. Per vendetta mettevo l’indice nel naso, estraevo un cappero panciuto e glielo tiravo contro. «Che schifezza!» esclamava dandosi alla fuga.
In compenso Elisabetta ci entusiasmava grazie ai mandarinetti sotto il golfino color verde, anche se le donava di più il bianco delle mutandine. Alberto si lanciava nelle mischie per attirare la sua attenzione. Attenzione che lei distribuiva a tutti noi, principio cui rimase fedele. Perdemmo il conteggio delle “belle”. La squadra di corso ventidue marzo dodici rimase out. «Avevano la puzza sotto il naso» si diceva, perché il dodici era un palazzo con il gabinetto in tutti gli appartamenti. Così ci stavano antipatici. Eh!… quella selezione della razza che fa bene una tantum. Però eravamo democratici, mai prese le impronte digitali.
(tratto da Di azzurro solo il cielo di Gianni Lombardi)
L’immagine:particolare del Naviglio grande di Milano.
Simone Jacca
(LM EXTRA n. 20, 15 aprile 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 52, aprile 2010)