Il delicato mondo dell’infanzia in “Un sogno chiamato Vittoria” di Emanuela Susmel
Un romanzo che si dipana lungo gli anni, con andirivieni spaziotemporali, e due bambine come protagoniste. Il tema dell’infanzia e degli affetti famigliari trattato con sensibilità, garbo e attenzione. Gli inaspettati giochi del destino e l’amore come forza invincibile. Queste alcune caratteristiche e contenuti di Un sogno chiamato Vittoria (Prefazione di Rino Tripodi, pp. 284, euro 14,90) della bolognese Emanuela Susmel, quattordicesima uscita della collana di narrativa La scacchiera di Babele – nuova direttrice Matilde Forni – della inEdition editrice/Collane di LucidaMente.
Dell’opera riportiamo un brano in cui troviamo un classico topos letterario: la fuga della “donzella” (un esempio per tutti: si pensi alla fuga di Angelica nell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto), l’arrivo in un locus che può rivelarsi amoenus od horribilis. Del resto, si tratta anche di un archetipo dell’inconscio collettivo, forse risalente ai riti di iniziazione…
Si accorse di aver parlato a voce bassa e si compiacque di aver udito qualcuno parlare: le sembrò quasi di non esser più da sola in quel viaggio incerto.
Si guardò intorno più volte, in quel ritmato cammino.
Poi, prima che la mente potesse anche solo pensarlo, le sue gambe presero a correre, come le zampe di un cavallo improvvisamente impazzito.
Correva, Tia, mentre i suoi occhi sorridevano nel vedere tutti insieme tanti alberi, lì davanti a lei e immaginando il benessere dell’ombra che essi le avrebbero saputo offrire nelle ore più torride.
Continuava a correre, Tia, mentre guardava subito dopo verso il cielo, convincendosi che esso non stava promettendo poi tutta quella calura.
Arrestò infine la sua corsa e si sedette per terra, per calmare il fiatone che quasi le impediva di respirare. Poco dopo, le sue gambe ripresero a camminare con passo lento ma costante e percorsero instancabilmente un paio di chilometri, in aperta campagna.
«Non è possibile che io mi sia sempre persa tanto! Questi immensi prati su cui correre, questi rami su cui arrampicarsi per restare un po’ all’ombra» si sorprese a dire a se stessa.
Attraversò intere valli, tutte distintamente colorate e profumate.
Decise che era giunta l’ora di mettere qualcosa in bocca.
Alzò il polso sinistro e sbuffò.
«Accidenti, nella fretta ho dimenticato l’orologio!», urlò in mezzo a quel campo.
Poi lasciò andare il suo esile corpo sull’erba.
La osservò bene, quell’erba, poiché non le sembrava del suo colore naturale.
Alzò nuovamente gli occhi verso il cielo, già coperto da grigi nuvoloni. Quindi scrutò il verde su cui stava camminando: le sembrò essere sporco ma poi si convinse che era il colore riflesso dal nero delle nuvole.
«Nella migliore delle ipotesi, tra poco verrà giù l’iradiddio! Non ho molto tempo» esclamò preoccupata, aprendo lo zaino. Addentò un pezzo di formaggio, provando una gioia immensa, a lei fino ad allora sconosciuta. Si soffermò ad assaporare quel cibo e la pace che regnava in quel fazzoletto di terra, lontano da tutto e da tutti. Lontano dal mondo in cui aveva da sempre vissuto. Mentre, sopra di lei, stava scoppiando una guerra, o almeno così le sembrò all’udire il boato che precedette di qualche istante la catinella di pioggia che scese copiosa. Ancora masticando, balzò in piedi caricandosi lo zaino sulle spalle e prese a fuggire a gambe levate. In meno di tre minuti si sentì i capelli fradici. Si guardò le maniche e i vestiti dal collo in giù: le apparvero lucidi, bellissimi. Ma altrettanto freddi. La pioggia cessò, con la stessa velocità con cui era iniziata. La fanciulla fermò la sua corsa e prese a girare più volte su se stessa, facendo uscire il suo pensiero in una risata sonora.
«Ci voleva proprio, questa pioggia purificatrice! Ora sì che sono nuova, completamente nuova!» urlò, continuando a ridere. Sentiva la testa roteare intorno al suo collo, tanto che si sedette nuovamente su quell’erba che, intanto, era tornata del suo verde brillante. Riprese il pasto dal punto in cui l’aveva lasciato, poi permise alle sue membra di abbandonarsi fino a che non si ritrovò sdraiata.
«Sono tutta bagnata… ma che importa?».
(da Emanuela Susmel, Un sogno chiamato Vittoria, Prefazione di Rino Tripodi, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
Le immagini: particolare della copertina di Un sogno chiamato Vittoria: La piccola Rebecca, fotografia di Giovanni Guadagnoli (www.giovanniguadagnoli.it), e la scrittrice.
Francesca Gavio
(LM EXTRA n. 20, 15 aprile 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 52, aprile 2010)
Comments 0