Il tema del viaggio, dell’acqua e del mare in un racconto inedito del noto scrittore nel quale si mescolano immaginario, inconscio, cruda realtà: “Sevdalinka” di Sergio Sozi
«Oh, vorrei che una piccola barca fidente di minuti remi / ti facesse indugiare sul lago Lucrino, / o che del Teutrante nell’onda leggera ti racchiudesse / l’acqua limpida, cedevole all’alterno moto delle mani» (Properzio, Elegie, I, 11, 9-12)
Uno Ricoperta di indecifrabile nudità, ti vedo ballare sullo scoglio: duro, arso, spigoloso e protervo sasso che non sa farsi letto per la tua pelle. E l’insensibile Apollo ignora qual privilegio sia poterti sfiorare le bianche carni coi suoi dardi – un dio, si sa, dà per scontato il suo potere. Delle miti onde non ti curi, nel salso mare, ed esali quel canto che tanto rattrista persino le dee, in genere altezzose e sorde. Caldo fiato di Eolo sciorina preziosi refoli dattorno, seducendo la riva. Ma io non ci sono – o Sevdalinka che canta se stessa e i suoi, a tutti ignoti, moti d’animo – non sono lí al tuo fianco in quella torrida estate, né in luogo distante a guardarti, da te inavvertito, con occhi amari e vogliosi. A scoprirti, a desiderarti, a lambirti è invece un ricordo, tanto ateo e indegno da non esser neanche realmente mio. No. Questo non è un mio ricordo. Perché io non sono un’entità capace d’aver memorie, almeno sue: questo tuo ritratto, Sevdalinka, è un prestito che mi ha assorbito e sedotto. Io sono, ad abusare del verbo essere, soltanto la dimora di un insieme di concetti estirpati dall’Empireo e trapiantati in terra: variopinte, semoventi, flessuose macchie di colore, incatenate fra loro sino a confondersi le une con le altre… cos’è parola e cos’è immagine, pennellata, in me? Oppure divina impronta? Non saprei distinguere. In ogni caso, esteriormente, io non sono niente di piú e niente di meno che tanti frammenti cromatici datimi in prestito. Eccomi: un quadro, un indifeso dipinto cui un ineffabile e saturnino pittore ha donato ogni propria bramosia. Quell’imbrattatele, un giorno dei suoi piú strani, deve aver visto te, Sevdalinka, mentre danzavi con la cetra in mano cantando te stessa, e cosí avrà sputato tutto, sangue, tempera, note e fonemi, assieme al cuore, su di una… tela. Questa tela. Me. Perché lui… …lui era certo che io assorbissi ogni sua stilla, zitta zitta: io, la sua tela. Schiava. Muta e senz’anima. E va bene: schiava sí. Succube anche. Neutra. Semplice supporto, appunto. Solo che hai sbagliato, uomopittore, a credermi pure incapace di riesumare i tuoi ricordi. Sí, qui ti sei fregato di brutto, e sai perché? Per aver sottovalutato la memoria. La sua potenza. La capacità che ha di attaccarsi a qualsiasi superficie ove la si riversi. Cosí hai spalmato su di me la tenera Sevdalinka, pittore, credendo di vestirmi soltanto di una singola immagine: giovinetta melanocrinita adamitica e cantante, cum cetram, saltella piangendo sul bruno, ispido scoglio adriatico (estate 2013, costa pugliese a sud di Monopoli). Fine. Io, la schiavetta-tela, nient’altro avrei potuto sapere di tutto ciò che, ne eri sicuro, sarebbe rimasto solamente tuo. Io, mera opera pittorica realizzata nell’estate del 2013. Oh, povero fesso. Ma nessuno te l’ha mai insegnato che a ogni azione segue una reazione, o almeno una conseguenza d’una qualche (variabilissima) rilevanza? E tu, pittore, pensavi di imprimere la tua fantasia – o meglio il tuo ricordo – su di me, per poi andartene alla chetichella a far altro, senza che qualcosa approfondisse nel tempo, storicamente oserei dire, la questione, insomma il quadro stesso… o meglio: la scena del quadro che sfrutta la sua propria memoria, seppure stesa su tela. Ma lo sai, tu, pischelletto, pivellaccio sciacquapennelli, cosa so io, be’… cosa sa, in verità, la tua disattenta ma non prevedibile pittura, della vita precedente di quella ragazza?So, sappiamo cose che hanno voce di per sé e si muovono, anche da sole… nel tempo dietro al quadro. Una bambina, per esempio, cioè, dico: quella, che nel tuo ritratto dimostra d’essere ormai una donna, quando era ancora bambina… in Campania, a giugno del 2004…
Due «Sevdah, cosa fai in bagno, vieni a cena! A dodici anni, possibile che tu stia sempre sulle nuvole… ti trastulli con l’acqua, lo so… ’naggia…». La piccola ancora non si è adattata alle abitudini, gli orari soprattutto, di quel Paese: nella sua Bosnia l’andazzo era diverso. E anche la mamma si comportava in altro modo, mica dài che è tardi, eccetera. Ma da molto tempo va cosí, in Italia – quella del Sud. Si corre, lí, anche a giugno. «Arrivo», sussurra Sevdalinka. Sta immersa completamente nella tinozza da tempo immemore e si accorge di aver freddo solo ora, come se il richiamo materno le avesse stimolato i sensi, finora intorpiditi quasi tanto da impedirle di aprire il rubinetto dell’acqua calda ogni qualvolta che le sarebbe servito. Il rubinetto lei lo ha girato proprio adesso, in magica sincronia con la voce della mamma, cosí interrompendo quelle fantasticherie che se le fermi un solo attimo spariscono senza lasciare traccia. «Che dici?!» urla lei dalla cucina «Chi ti sente! Ferma l’acqua e sbrigati!». Cosí la ragazzina si asciuga, quasi danzando indossa i vestiti pronti sullo sgabello e raggiunge la cucina, dove la attende la famosa cena. Il babbo tornerà dal lavoro – fa il muratore – un paio d’ore piú tardi, verso le 21, dunque si deve mangiare come sempre in due: lei e Mirana, una mamma che ha solo venti anni piú della sua unica figlia, ma si sente la pelle vecchia e coriacea quanto la tomaia delle scarpe maschili – i bigi scarponi della sua Bosnia. La vita in Italia, la calda Italia, è dura: a giugno inoltrato le ferie sono ancora un miraggio e papà Dragomir quest’anno non se la sente di chiederle al padrone… ché quello, già tanto scorbutico, a sentire l’odiata parola ferie magari è capace di licenziarti in tronco. E siccome Dragomir ha trentasette anni e va sulle impalcature senza contratto da un anno, sa quanto sia indispensabile abbozzare, in questo Paese. Prima regola dell’Italia: subire in silenzio il potere. Lo fanno per primi gli italiani – che chiacchierano e sbraitano poi, quando devono rischiare qualcosa di persona, curvano la testa buoni buoni – figuriamoci tre bosniaci, dei quali uno ha pure la sottomissione incorporata nel nome di battesimo, visto che sevdalinke sono le canzoni tradizionali bosniache che meglio esprimono l’indole malinconica e fatalista di quel popolo. «Poverina me», sussurra Sevdalinka sorbendo la prima cucchiaiata di pasta e fagioli. «Cosa mormori?» rimanda Mammamirana dall’occhio torvo. Ha la voce rauca per il fumo, e la debolezza cronica di chi coglie pomodori dieci ore al giorno la rende intollerante. Di per sé non sarebbe tipo rude. Solo fatica ad ascoltare il prossimo, ha la mente spesso annebbiata. Le reazioni ne fuoriescono un po’ animalesche. «Mi sembra quasi» continua a biascicare la bambina coi capelli ancora mezzo bagnati «di aver dimenticato tutta la vita di prima, quando stavamo bene». «Dici a Banja Luka, figlia? Quando stavamo bene dici…» e con quel viso rinsecchito fa una smorfia che quasi le scompiglia la pettinatura. Ha dei crini ancora giovanili e biondi. Poi tace, piatta. «Mamma… senti… io davvero non ricordo piú come siamo arrivati qua… un anno fa circa, giusto?». «Era il 5 luglio del 2003. Fra dieci giorni sarà un anno esatto. Brava, Sevdah mia. E capisco che tu abbia buttato tutto a mare: ogni memoria, ogni istante di quel viaggio…» si riempie di vino rosso l’ampolletta, poi prosegue con un’esitante emozione a fior di sguardo: «…e anche molti altri momenti immediatamente precedenti al nostro arrivo in Italia, hai oscurato, vero?». La bambina annuisce: «Sì, mamma… strano… ma ho in mente solo un gomitolo ingarbugliato di fotogrammi… degli spezzoni senza capo né coda, mescolati fra loro». «Questa è un’occasione eccezionale per la nostra famiglia» sussurra la mamma con malata soddisfazione «anche se il babbo non è ancora tornato dal cantiere. Certo: tu devi sapere, Sevdah. Perché a dodici anni la vita ti sta portando fuori dall’infanzia e dal suo mondo; dunque è meglio che tu capisca cosa conservare di quell’… universo in sparizione, quali immagini è meglio che ti porti dentro mentre navighi sul traghetto per il nostro mondo, quello degli adulti. I cosiddetti adulti. Perciò bisognerà fare un po’ di ordine. E io adesso…».Cosí Mammamirana abbandona la cena, leva al soffitto lo sguardo, poi, inclinando la testolina come una tartaruga rovesciata, allunga le gambe sotto al tavolo e, mani incrociate sul ventre, prende a raccontare.
Tre «Casa nostra, nel ’92, non l’abbiamo lasciata noi: è stata Banja Luka, coi suoi canali, fiumiciattoli e fiumi, a riprendersela… dappertutto scorrono, loro, maledetti, anzi, senti bene:» rimarca decisa «la colpa è stata della loro invidia e spietatezza… ché l’acqua ha un cuore arido, sai. L’acqua sembra bagnata, ma dentro di sé è arida. Non sente, è insensibile, petrosa, capisci? Come la nostra Vrbas, che nasce in una specie di canyon, sul monte Vranica, e quella roccia asciutta e imperturbabile se la porta dentro fino alla fine, quando sfocia sulla Sava, la madre dei fiumi balcanici, e non solo balcanici. Vrbas, odioso letto di pestilenze: solo i coccodrilli dovrebbero starci. Invece… ah ah ah… nutre, la Vrbuccia, tante teste maligne di uomini. Armati. Teschi. Orribili e pazzi. Comprendi questo tipo di ragionamento? Te lo ricordi il fiume perfido della nostra città? E sapresti dire a un casertano, qui, che roba è capace, quella Vrbas, di procurare ai bagnalucani, intendo a quelli poveri? No no no. Eh. Figúrati. Tu la ami, l’acqua. Quando ti ci immergi non vorresti lasciarla piú. Lo so. Ebbene, quel che ti racconterò degli ultimi nostri giorni a Banja Luka e del viaggio per questo postaccio dovrà per forza farti cambiare idea in proposito, figliola mia. Ma prima c’è molto altro da ricostruire: tu, ninfa fluviale, devi prima mutare opinione sull’elemento che ti partorí dodici anni fa. Il tuo cuore deve cercare nuova forma e diversi palpiti, Sevdalinka. Ed io ti accompagnerò per facilitarti il transito, la metamorfosi del cuoricino. Ma dicevo. Dicevo di quel che precedette la tua nascita. Dunque da qui inizierò: dal periodo in cui stavo aspettando te. Solo alla fine arriverò a ricordarti come siamo giunti in Italia l’anno scorso. Allora. Eravamo a maggio del 1992. Sarajevo stava già assediata. Noi attendevamo la guerra: promessa, era, come un compito divino sul tipo di quello che Javè assegnò a Mosè sul Sinai. Ma noi ci eravamo meritati da Javè solo una guerra fra poveri, sentimentali, pacifici e alquanto cretini balcanici. Manco violenti siamo, ah ah ah, manco veramente, compiutamente violenti. Solo incapaci di essere coerenti fra le correnti dell’acqua… oh, scusa, del pensiero: abbiamo in testa due fiumi che vanno all’incontrario, uno su e uno giú e non sappiamo gestirli. Gl’italiani neanche sanno gestirli, i flutti della coscienza, glu glu, ci annegano ogni giorno, solo che, essendo occidentali, fingono, recitano coerenza: male ma recitano, hanno l’impulso a far teatro, ’sti italiani, soprattutto loro. Invece gli inglesi, vedi, quei roseo-pallidini e frigidi che tutti amano perché parlano una lingua internazionale, ecco loro son bastardi senza manco ruoli da palco. Sceicspir non gli ha ’nsegnato niente. Infine eccoci a noi, ah ah ah, noi slavi tutti, dunque anche questa famiglia croata cattolica nata per caso a Banja Luka, noi, dico, manco quello sappiamo fare: né gli Sceicspir né i Verdi. Andiamo un po’ su e un poco giú, seguendo le correnti. Tronchi inermi. E tu mi guardi, Sevdalinka, stupita, stu-pi-ta. Presagisci. Mh. Chissà, magari presagisci bene, con l’acqua che hai in testa. Allora quel giorno di maggio del ’92 avevo te scalpitante nella pancetta… grande panza era. E camminavo, cic e ciac, lenta, non troppo piena di salute, con la testa che mi girava, e soprattutto con il babbo che stava a casa, appena diventato disoccupato, in attesa della chiamata alle armi, a fare non so… a fare un solitario a carte, ama le carte, vedi che gioca a briscola pure qui coi casertani. Dicevo che… che camminavo verso il lungofiume, deboluccia, per andare, recarmi, ah ah, recarmi si deve dire, a far la spesa in quel negozio d’alimentari vicino al Kastel, l’antico castello romano di Banja, grigio chiaro e possente, quieto. Quand’ecco… arrivo sul fiume che sento un rrrrroooommmmbo! Rumballero bu bu! Benghetecrac! Tranc! Mica erano cannoni. Straripamento. Enorme. Ed improvviso: la Vrbas stava alle mie spalle e sogghignava gonfiandosi: voleva colpirmi senza preavviso, come un pugile, una tramontana, che so, un pensiero malvagio. Un pensiero malvagio fatto di accadueò. Fiume bastardo. E io che già mi sentivo male normalmente, guarda un po’ cosa mi tocca, porcaboia! Era calata un’oscurità catacombale, i pochi lampioni ancora accesi a fulminarsi l’uno dopo l’altro nel crepuscolo. Cosí imbocco un vicolo sconosciuto e di lí a pochi metri intuisco una specie di piccolo androne, l’unico della viuzza e mi ci infilo: l’entrata di una vecchia fabbrichetta, penso, quando prende a diluviare anche dal cielo, e non vedo piú un cavolo secco, ma poi realizzo che stavo davanti a un’officina meccanica con la serranda mezzo alzata sulla soglia. Tendo le braccia e sollevo quella saracinesca, mentre saltello sciacquando qua qua qua, poi subito la chiudo e insomma… insomma io svengo proprio lí, lí dentro per fortuna. Poi dev’esser passato qualche deca di minuti. Poca roba di tempo. E mi sveglio per i dolori al basso ventre. Tocco un’automobile. È buio pesto ormai. Il silenzio del fabbricato mi toglie quel poco di lucidità che ancora abbia. Nausee forti di tempesta dentro il mio corpo. Non posso far a meno di urlare. Faccio sfiaccolare un accendino che avevo in tasca e mentre vedo dell’acqua penetrare nell’officina, mi si rompono a me le… acque, capisci, Sevdah. Cosí entro nell’automobile a fare il mio dovere. Be’… adesso ho le gambe che paiono due rami secchi: si piegano solo dopo tante insistenze sui pomodori italiani, ma allora qui sotto» e si tocca le cosce sotto al tavolo, Sevdalinka muta a osservarla con gli occhi sbarrati «qui sotto c’erano altro che fiumi: c’erano dei muscoli turbolenti, freschi, guizzanti! Insomma io dentro quella Fiat urlo e chiedo aiuto, ma niente, le acque stavano strabordando dappertutto e manco le trote, fra i viventi, dattorno. Tu nel maremoto volevi nascere… prepotentemente… o scusa… con… con ovvia prepotenza, no? Premevi sulla mia pancia ed io non vedevo l’ora di portarti da quell’acqua – liquido amniotico si chiama – alle mie braccia. Asciutte. Solide. Anche se comunque deboli. Cosí venisti al mondo. Sommersa. Nel tuo elemento. E senza assistenza alcuna. E io restai, anche dopo il parto, lucida come una lupa, in una scarrubata Fiat 127. O meglio: stetti lí, forte come una pazza, con quella potenza dentro e intorno a me che sanno dare soltanto le situazioni divine… decise da Dio, Sevdah. Come lo sei tu. Allora, andiamo avanti cronologicamente, con ordine, o ninfa del cuore mio. Passaqualche buona manciata di ore e, dopo esser riuscita non so come a superare il metro d’acqua che stagnava nel vicolo, vado in direzione di casa, cioè sulle stradine che conosco piú in alto, per evitare di farci sommergere, tu ed io, dalla piena del fiume bastardo. Casa nostra mica era lí dietro, intendi, ma magari ancora a un chilometro. Per fortuna in salita. Era appena sorta l’alba ma la città vecchia non dava segni di vita. Procedo, su su su, salitelle, falsipiani, discesette. Dappertutto con il terrore di vederci calpestate da un’onda assassina. Pioviggina ancora. Infine, guarda: arrivo a pochi minuti da quella capanna – l’aveva ereditata papà tuo da suo padre sai – quando irrompe la visione tremenda: una scossa colora di biancopazzo la strada, insieme a un rumoraccio d’inferno, legna che si spacca, muratura che cede, pietre a terra d’un balzo come ranocchie, spinte da un uragano, dai polmoni di Eolo furibondo. O magari Ercole Fluvio! So-un-caspita-io. E mi accuccio proteggendoti. La casa però si squaglia davanti a me. Tutta a terra va, casa nostra: s’inginocchia come un fedele ipocrita davanti al prete durante la messa». «Tutta a terra, mamma?» dice Sevdalinka ad occhi chiusi. Piange delicatamente. La abbraccia, Mammamirana. Poi si ricompone dalla sua parte della tavola da pranzo e ricomincia, ma con piú tenerezza delle ultime battute, con meno cuore: «Tranquilla. Quel crollo era solo un’interruzione. Le interruzioni sono cosa normale in Terra: ora un terremoto, ora un licenziamento, un cambio di governo… eh eh eh… ed ecco… io e te fummo da sole sulla strada e senza casa. Tuo padre, seppi poi, s’era messo in salvo due istanti prima nell’osteria piú su nel vicolo, dove l’acqua non è mai giunta. C’era andato a comprare le sigarette. Ora, qui in Campania… qui… ma Sevdah, brava che sei: non piangi piú; ti amo… ed ora è tardi: a Banja saresti stata a letto da un pezzo ché saranno le otto passate… sono… saranno che ne so, l’orologio… boh. Mh. Andiamo a dormire. Se ne riparla domani, forse. Se ti comporti bene». «Eh, no. Dimmi. Ora. Ora, mamma». «Cosa». «Il resto della storia». «Il resto di che…». «Mamma!» adesso le due si sono scambiate di posto: Mirana ha gli occhi gonfi di lacrime e Sevdah è divenuta seria, dura, e chiede, come direbbe un politico, recisamente: «Tu mi hai riferito finora che io nacqui nel Novantadue durante l’esondazione della Vrbas. Mi avesti nella macchina, in quell’officina. La casa crollò e noi fummo ospitati da zia Anja. Bene. Questo, all’incirca, lo sapevo già. Ma l’anno scorso, sii precisa, l’anno scorso in quali circostanze ce ne siamo andati da Banja? Tu mi vuoi ingannare… intorbidare le acque. Sei reticente, mamma…».
«Oh» sussurra Mirana abbassando lo sguardo «no, cara, per carità. Allora, un anno fa…».
Quattro «…un attimo. Precisiamo figlia mia. Dal ’92 fino al giugno del 2003 io e te riuscimmo a sbarcare il lunario grazie a zia Anja, che con la sua azienduccia di import-export mi diede lavoro come traduttrice in italiano e in tedesco. La casa editrice dov’ero prima aveva licenziato tutti e il direttore se l’era data a gambe a Belgrado, ch’era serbo lui e gliene fregava niente del personale croato. Intanto tuo padre… ricordi?». «Papà viveva molto lontano da Banja e veniva a trovarci solo a Natale, vero? Questo me l’hai già detto altre volte». «Be’, gli ultimi tempi invero faceva un salto pure verso luglio o agosto… e adesso che sei grandicella aggiungo che rischiava forte anche cosí e non ci mandava un soldo. Qualche settimana dopo la tua nascita, aveva evitato la guerra espatriando clandestinamente in Austria, via Slovenia, nascosto in un tir di pollame. Se n’era andato da solo perché sapeva che noi due, avendo per protezione il suo cognome d’origine serba, non avremmo corso rischi, a Banja. E a Salisburgo una mano santa gliela diede quel suo ex collega dell’Università di Sarajevo, Slavko, anche lui emigrato grazie al lasciapassare che aveva ottenuto con delle conoscenze alle Nazioni Unite. Slavko, che ti ha tenuto in braccio diverse volte, ricordi – sempre sia benedetta l’aria che respira – lui a tuo padre gli trovò un posto da gelataio, in Austria». E ad immaginare la faccia seria seria del marito incorniciata nel berretto con scritto Italienisches eis Mirana sorride per la prima volta nella giornata. «Non ci mandava un soldo? E… papà cosa faceva, prima di andare in Austria di nascosto? Non sarà stato mica un barab…». «No, no,» sorride Mirana «non era un barabba, tranquilla, ma solo un critico letterario… poi un povero gelataio che sopravviveva a Salisburgo dentro una cameretta da diseredati. E prima era stato caporedattore nella casa editrice dove stavo io. Apprezzato comparativista… lascia perdere cosa significa, te lo spiegherò un’altra volta. Seguiva la collana dedicata ai romanzi internazionali. Io traducevo quelli italiani e tedeschi, lui gli spagnoli e qualche francese. Solo che, oltre ad essere croato in una città a maggioranza serba, aveva una innata avversione per qualsiasi tipo di violenza. Per lui il servizio militare avrebbe significato morte certa… ce lo vedi, tu, papà col fucile in mano?». Intanto Mirana si leva e prende a bollire la sua solita tisana, ormai del tutto indifferente all’orario e alla pasta e fagioli. «Troppi ne ho visti finora, in uniforme o in mimetica, qui o laggiú. Ma… no: papà col fucile no. E dài, mamma, continua a parlarmi, su, te ne prego». «Basta. È troppo tardi. Vedremo domani. Fila a letto», dichiara, stavolta nettamente, Mirana. Si è di nuovo rabbuiata. «Domani continui, a partire dall’Austria. Me lo prometti?». «Sí. Adesso però va’». La dodicenne ubbidisce malvolentieri e dorme già da un pezzo, allorquando rientra il padre. Dunque il séguito della storia lo rubiamo a lui, il signor Dragomir… il quale sa tutto per filo e per segno perché quando si decide, all’inizio del 2003, a lasciare definitivamente l’Austria, si traina dietro ben dieci imbarazzantissimi anni di assenza, nel corso dei quali era riuscito ad incasinarsi fino al collo, non con qualche donna, come sarebbe banalmente ma verosimilmente umano pensare, bensí con degli esuli croato-bosniaci viventi a Salisburgo e dintorni. Cosicché a Banja, un bel giorno di inizio giugno del 2003, alle 14 e 30 esatte – l’ora del notiziario televisivo in lingua croata – ben tre poliziotti si presentano a casa sua, cioè a casa di sua sorella Anja dov’è alloggiata la famigliola, per «Accompagnare il dottor Dragomir Janković, di anni trentasei, in commissariato, causa comunicazioni riservate e personali da parte dell’Ufficio Passaporti e Visti». «Fortunatamente» pensa lui in quel frangente «Sevdalinka è ancora a scuola, Mirana gironzola per il mercato cittadino e io sto in canottiera e pantaloni corti che leggo Borges su una seggiola della cucina. Fesso fortunato, come tutti quelli della mia tipologia». La sorella guarda il telegiornale. Cosí, mangiando la foglia, Dragomir appoggia El libro de arena sul tavolo di ciliegio, invita gli agenti ad attenderlo un attimo lí, a piano terra con Anja, mentre sale in camera per vestirsi. E in un lampo, attraverso il terrazzino che dalla stanza da letto guarda il giardinetto dietro casa, si rende uccel di bosco. «Eh, che cretinata mostruosa la nostalgia, borghesissima eredità» riflette ancora l’uomo in fuga pochi minuti piú tardi, razzolando fra le colline intorno a Banja. «Perché, dimmi un po’: tu te ne stai all’estero, laureato e reietto, per sfuggire alla macellazione del tuo Paese. Passano dieci anni e torni, visto che tutto sembra sistemato, anche se i serbi ormai sono di fatto i padroni dell’intera regione e… chi ti viene a scovare, caldo caldo a casa? Tre testevuote di sbirri nazionalisti che credono di portarti come un porco al mattatoio senza che tu neanche grugnisca. Imbecilli e ignoranti». Intanto sa anche, però, Dragomir, di essere lui stesso la causa di questi mali. Mali salisburghesi. Nati evidentemente quando quel suo concittadino in esilio, Mirko, gli aveva proposto di tornare ma a Zagabria, e meglio se aderendo al partito nazionalista croato, che gli avrebbe reso la vita rose e fiori per l’eternità. Tutti i croati in Croazia, amico, finalmente, gli aveva detto, esultando, Mirko. Invece lui che fa? Torna sí, ma a Banja Luka. E quello, certamente incattivitosi per lo sgarbo, deve aver fatto la spiata alla polizia serba di Banja per fargliela pagare: Letterato codardo, disertore, indegno della cittadinanza croata, va’ in galera nella tua merdosa cittaduzza serbizzata fin nelle viscere! Disertore, già. Come Mirko, ma reo di apostasia – sovrapprezzo non di poco conto. «Adesso cosí bisogna andarsene di nuovo, però stavolta con il carico di una moglie e di una figlia undicenne. Sí, tutti via da Banja! Tutti e tre. Basta con l’individualismo, la ragionevolezza, il buon senso e la prudenza. Ma soprattutto basta con le speranze e il sol dell’avvenire, tempo scaduto per il vecchio mondo: evacuiamo!» dice Dragomir mentre vaga per le campagne fuori Banja Luka, che egli conosce a menadito.
Il piano per la fuga viene messo in atto qualche tempo dopo, ossia la notte fra il trenta giugno e il primo luglio di quell’anno – ricordiamo un’ennesima volta ai lettori che era il 2003 – e lo aveva elaborato, quel piano, Dragomir, in completa solitudine, dentro una baracca lungo un fosso fuori città, tra laghetti artificiali, sporadiche abetaie, infiniti campi di granturco, patate, ràfano. E quel che seguirà riassume in breve quanto accadde.
Cinque Banja Luka. Verso l’una di mattina del primo luglio Duemilatré, una zattera attracca a un moletto lungo la Vrbas, situato a forse mezzo chilometro dall’abitazione di Anja. Sul lungofiume da qualche tempo si trovavano due donne che, alla vista del natante, tirano fuori da un denso cespuglio diverse valigie, che vengono caricate in gran fretta. In un lampo sono tutti sulla chiatta, che slega le funi e senza avviare il motore si lascia andare nel silenzio, docile alla corrente. «Avete preso tutto?» chiede a bassa voce Dragomir alla donna piú alta. Lei annuisce con lo sguardo spiritato, intanto prepara un giaciglio per la ragazzina e la aiuta a stendervisi, coprendola con pesanti coltri. «Sei sicuro che nessuno ci sorvegli?». «Lo saprai meglio tu, Mirana, io stavo fuori città», replica Dragomir tenendo il timone. «Non ho notato facce sospette nei dintorni. Il telefonino era normale, senza strani rumori». Le zanzare intanto ruotano inferocite, per nulla disorientate dall’assenza di luna. Passa una buona mezz’ora. Le zanzare ormai nessuno piú le scaccia. E a quel punto nemmeno lo sparo le distoglie dalla loro abituale pratica vampiristica. Tanto meno i riflettori puntati sulla zattera da una veloce lancia, dalla quale si eleva una voce al megafono che intima: «Polizia, fermatevi immediatamente!». Con tutta probabilità quel motoscafo deve aver lasciato solo da pochi istanti un porticciolo nelle vicinanze, non li stava seguendo sin dall’inizio. «Calme, state calme: me la immaginavo una qualche sorpresina» dice Dragomir alle sue donne ormai sveglie e disorientate. «Adesso ci parlo un attimo con quelli. Capiranno presto le mie… motivazioni. Voi alzate le mani come me… avanti, un piccolo sforzo anche tu, draga mala Sevdah, dài: ecco, cosí, brava… adesso risdràiati pure, dài. Sbrigo la faccenda e riprendiamo il viaggio: Sava, Zagabria, Lubiana, Italia… lungo tragitto ma regolare: la via fluviale interna ai Balcani è la meno sorvegliata in assoluto. Superato questo, altri guai non ce ne dovrebbero essere». Poi lui monta sulla vedetta, parlocchia dando le spalle alla sua barchetta, mette una mano nella tasca di dietro dei jeans, infine torna a bordo salutando i poliziotti. «Adesso siamo quasi al verde, care mie. Ma un miglior investimento per i miei risparmi di gelataio austriaco non avrei potuto trovarlo», confessa sorridendo il critico letterario. «Di benzina e cibarie ne abbiamo buone scorte. Quel che ancora ci resta del capitale lo investiremo piú avanti. Accendiamo il motore. Sereni, eh». Da lí in poi tutto lento e senza rilevanti fastidi fino allo sbocco sulla Sava, avvenuto nel primo pomeriggio del giorno successivo. Due giorni ancora senza mai metter piede fuori dalla zattera, piano piano, ed ecco spuntare le casette della periferia di Lubiana. Lí la Sava è proprio quieta. Ci si ferma a un attracco turistico e presto, con una telefonata, viene convocato il possente cugino Kajetan, ultrabaffuto biondissimo parente di Mirana nonché tassista a Lubiana da anni annorum, il quale si carica il terzetto sull’auto di servizio – l’unica che abbia d’altronde – e lo scarica alla stazione degli autobus extraurbani della capitale slovena, per giunta offrendo a tutta la comitiva un saporito pranzetto in trattoria: brodo di manzo, golaš e potica, ovviamente. Poi, un centinaio di chilometri in corriera fino alla slovena Nova Gorica, da lí una breve scarpinata con i bagagli ed eccoli all’ultimo anello: l’Isonzo, che attraversa il confine con l’Italia proprio nei pressi della città. Dragomir è convinto che dovranno navigarlo per evitare problemi con le guardie confinarie. Basterà percorrerne due chilometri, non piú. Ma… eh… quello rappresenta il mastino dell’intera fuga, il cane da guardia che non si può corrompere con gli scellini o i marchi tedeschi. Lí la pendenza è tremenda: si rischia di finire travolti dalle rapide o capovolti alle cascate, infranti sugli imprevedibili scogli. Nella migliore delle ipotesi bloccati per via di una diga, poiché tra Slovenia e Italia ce ne sono a ripetizione. Sí, l’Isonzo è il diavolo. E Dragomir non c’è mai stato prima, non ne sa molto. Cosí l’uomo, sulla sponda destra della Soča (cosí in lingua slovena), a pomeriggio inoltrato di quel quattro luglio, estrae il canotto grigio dalla borsa in cui lo aveva conservato sin da Banja Luka, lo gonfia con una pompa da bicicletta e monta le pagaie. Nonostante l’urgenza, le operazioni vengono compiute con la rituale lentezza, diremmo con il religioso sussiego del meridionale balcanico. L’acqua è smeraldina anche a guardarla da vicino. Sorridente. Di bagaglio ormai sono rimaste solo le due grosse borse con i vestiti e la biancheria, qualche coperta di lana pesante, una bottiglia d’acqua, del pane avvizzito e poco salame, divenuto di color marrone come certi fagioli bosniaci. Ma è anche troppa roba, davanti alla sfida che la famigliola, trascinata dall’istintiva fiducia del padre, sta per dichiarare al vortice di quel fiume imprevedibile, nervoso e violento.E lí, ecco…
Sei «L’Isonzo è stato il secondo tradimento acquatico, Sevdah», dice Mirana. «L’acqua, dopo aver cercato di accoppare te nel Novantadue, voleva farci fuori tutti insieme il quattro luglio del Duemilatré. Invidiava il nostro amore… o confermava la pazzia dei progetti di tuo padre. Boh». Aveva promesso a sua figlia che il giorno dopo le avrebbe raccontato tutto e appunto lo sta facendo, nel solito cucinino, adesso che lei è tornata dalla scuola – Dragomir ovviamente anche stavolta impegnato al cantiere di Caserta: in Italia non fa che faticare sui ponteggi, bestemmiare, bere vino bianco da quattro soldi e dormire; impossibile avvicinarlo, visto che spesso mangia pure fuori. «L’Isonzo…» biascica appena Sevdalinka con in faccia dipinto lo stupore di chi stia ascoltando storie lontane, cupe e incredibili. E intanto è incapace di compiere qualsiasi azione, accoccolata sulla sedia imbottita del cucinino. A chiederglielo ora, risponderebbe di non avere piú dodici ma infiniti anni sulle spalle. Un misto di timidezza, paura e timore reverenziale le sta impedendo, probabilmente, di interloquire nella storia della madre. O forse è solo che vuole sentire ‘‘come va a finire’’. «Se non siamo affogati» prosegue la mamma «lo dobbiamo solo a quella diga: ci siamo andati a sbattere a tutta velocità, cadendo in acqua a gambe levate, sí, ma almeno senza esser trascinati via dalla corrente, ché quel muro di cemento aveva i fori di uscita piuttosto stretti… il gommone non ci passava. Si è incastrato e lentamente abbiamo guadagnato la riva. Ormai eravamo in territorio italiano. Perso tutto, tranne gli ultimi soldi di quello sconsiderato di tuo padre, abbiamo poi raggiunto casa di zio Erdovan a Caserta. Che avessimo appuntamento con lui lo sapevo già dal principio, ma non te ne parlavo perché ero certa che, a dirlo chiaro e tondo, non ci saremmo mai arrivati. Superstizione chiamala, Sevdah mia. Tu dormivi di continuo, in treno, per fortuna, cosí almeno ti sei risparmiata le condizioni in cui ci eravamo ridotti. Il resto lo sai. Adesso oseresti chiedermi ancora perché al mare non ti ci ho mai portato né ti ci porterò mai, anche se sta a meno di due chilometri da qui?». Dopo quei colloqui chiarificatori con la madre, Sevdalinka era cresciuta tenendo, senza apparenti rinunce, le distanze da qualsiasi accumulo o corso – liberi – di quella sostanza liquida: oramai l’abiura dell’acqua era stata pronunciata ufficialmente da Mammamirana a nome di tutti gli Janković. Dunque, al di fuori del bagno e delle fontane, insomma della rete idrica o per meglio dire del comune addomesticamento, che si stesse alla larga dall’accadueò allo stato selvaggio. Cosí la legge familiare, applicata in passato ed ora chiaramente codificata. Ma gli esseri umani – muovendosi durante i minuti, le ore, i giorni e gli anni della propria prigionia temporale – accade che rimescolino anche le carte piú sacre, gli intoccabili testi sanciti dal loro primo ambiente legiferante, ossia la famiglia. È fatale, tale rimescolamento, e in molti uomini esso principia proprio nel periodo in cui viene inaugurata la propria arroganza intellettuale… la quale è uno stato di superbia dell’essere e dello stare ormai non piú del tutto naturale, ma neanche ancora artificiale. La si chiami adolescenza o fase acuta dell’umana metamorfosi, la sostanza non cambia. E la nostra Sevdalinka, procedendo dai suoi dodici anni d’età, sempre piú vedeva il problema dell’acqua come il suo, ehm… spartiacque con il futuro. «Ah… quanto sarebbe bello…», si coglieva a confessarsi talvolta, e non osava continuare: potersi immergere nel mare! Ma non c’è nulla da fare: gli anni passano sempre, rigorosamente lontano dall’accadueò allo stato selvaggio. Dio ce ne scampi: gli amici casertani, a voglia di rifiuti o scuse, a mano a mano rinunciano ad invitare Sevdah alle abituali gite sulle spiagge: se si parla di mare, lei non c’è. E continua a non esserci, ligia al suo dovere, anche quando, nell’autunno del 2010, diciottenne neodiplomata allo Scientifico, prende a frequentare il conservatorio di Napoli – scegliendo come strumento l’arpa perché… perché, ma guai a dirlo, quelle corde sono una cascata di note. Bene. Cammina cammina, eccoci giunti nelle immediate vicinanze temporali del nostro dipinto, ed esattamente al giugno del 2013, qualche giorno prima che esso fosse realizzato (da te, o anonimo strapazzapennelli). In quel mese la ragazza che osserviamo è una bella ventunenne, slanciata e mediterranea dai riccioli alla punta dei piedi (passando per le iridi, altrettanto carbonine), ma priva di corteggiatori, eccetto qualcuno dei soliti arrapati che infestano come mosche il nostro surriscaldato mondo. Tuttavia questo non la immalinconisce punto, tanta è la gioia nel poter assaporare una famiglia che ella sente bastante per il soddisfacimento di ogni propria necessità, interiore o esteriore. Le compagne di studi, sotto sotto, sa bene, la deridono, le piú franche tra loro prendendola per stupida e arretrata senza giri di parole, quando ve ne sia l’occasione. In definitiva: l’ormai palese rifiuto dell’acqua da parte di quella bosniaca, per gli italiani, ha assunto l’indiscutibile valenza di una chiusura verso le moderne libertà occidentali. Come se Sevdalinka, nonostante la sua nota pratica cristiana, indossasse una invisibile burq’a. Hai voglia a sottolinearlo, che sei cattolica croata e non musulmana. Hai voglia a vivere da musicista, dopotutto colta e libera di apprezzare romanzi di autori di tutto il mondo, qualunque opinione politica o religiosa essi abbiano. E di inventare eczemi, irritazioni cutanee o intolleranze all’acqua non ne hai voglia perché ti sentiresti sciocca veramente, e ancor piú ridicola se fingessi ipersensibilità ai raggi solari. Non esistono rimedi, pensi: per quella gente, chi si comporti diversamente dalla massa – magari, al di là dell’acqua, fosse uno o una che leggesse troppo o se ne fregasse del calcio, del ragazzo carino del momento, del telefonino, della tivú e della moda – non è una persona normale. E alla massa non esistono rimedi diversi da un’altra massa, che tu non sei. «Comunque sia, potrò sopravvivere». Soltanto, sai nel cuore, soltanto bisogna stare lontano, isolati. Bisogna proteggersi e restare felici d’essere… vivi nonostante l’acqua, e anche di esser vivi molto piú di quei poveretti che si sentono tanto moderni ed evoluti solo perché oltre ai soldi, al sesso e alla tecnologia, a portarli avanti nella vita restano loro quattro pidocchi in testa. Certo che dici, un po’ compiaciuta, o Sevdah: «Io la mia vita so di condividerla con certe passioni e questa sicurezza è d’acciaio, nonostante quel problemino». Certo che è vera felicità, la tua, fiorellino… ma ad esaminarti col microscopio, ecco, si vede un rovello che, inesorabilmente, cresce dentro di te. Sarà veramente uno stupido nemico interiore, una molecola nera nell’immane luce dell’anima… eppure sta lí: «Invadente», pensi quel 14 giugno del 2013: quella molecola nera, d’un tratto, ha preso a pesarti troppo sulle spalle.
Come mai? Riassumendo sin dall’inizio la giornata, forse potremo azzardare qualche ipotesi.
Sette Quel paesino in provincia di Caserta, già verso il mezzogiorno di domenica 14 giugno 2013 era praticamente deserto, essendosi ogni famiglia che si rispetti trasferita – magari subito dopo la Messa o fin dalla sera prima – in qualcuna delle diverse località costiere sul mar Tirreno, a un tiro di schioppo da casa. Sevdalika in tale ora stava tornando, a piedi come sempre, dalla Funzione, proteggendosi dal sole, già gagliardo, con un ombrellino di stoffa rosa chiaro. Era ansiosa di trovarsi in casa quanto prima per poter scartare un pacco regalo che si preannunciava straordinario, anche se quel giorno non cadeva alcuna ricorrenza: si trattava di un omaggio, le avevano anticipato i genitori, alla sua arte. L’arte era oggetto di particolari riguardi, in famiglia, per rispetto agli studi musicali della ragazza e forse anche in quanto triste retaggio della passata professione dei genitori: la povertà materiale dunque passava in secondo piano. Aperto il portoncino dell’appartamento, la ragazza si avvede dell’assenza dei suoi. Oltrepassa il buio corridoietto e in una cucina splendente di luce dorata si trova davanti una specie di… pizza rivestita di carta argentata, posata sul tavolo. Sotto ad essa un biglietto chiuso in elegante bustarella da auguri. Lo apre per primo: Oggi sei autorizzata a andare dovunque, ma solo se porterai con te questo oggetto. Scrivi qua sotto il nome della località in cui sei diretta e sii felice. Baci. Noidue. P.S. Siamo andati a pranzo con zio Erdovan a casa della signora Eliana, massimo all’ora di cena torniamo. La signora Eliana era un’attempata amica dello zio, il quale già del suo stava sulla sessantina avanzata. Sevdalinka con infantile eccitazione apre il pacco: «La gigantesca bellezza di un’arpa è niente in confronto a questo!». E non osa sfiorare le corde diamantine di quella cetra dorata, che sicuramente era appartenuta ad Orfeo in persona. «E adesso dove vado a celebrarla?» si chiede con gli occhi sprizzanti di sacra ammirazione. «Sicuramente al…» non ha nemmeno il coraggio di pronunciarne il nome. Automaticamente però scrive in calce al biglietto: Vado a cercare il dio ignoto. Ed esce di casa con le ali ai piedi. Dev’essere proprio in quell’istante che ella ha pensato «Invadente!», rivolgendosi alla sua maledetta molecola nera interiore. E la decisione, l’improrogabile decisione, lei, anche, l’avrà presa lí per lí. Quindi avanza verso il mar Tirreno a passo deciso, lo strumento sotto braccio. Ma ben presto si ferma: «No. Ognuno ha il proprio dio: il mio sta ad est». E si volta. Come Sevdah sia giunta tutta intera in Puglia, magari il giorno dopo, non è cosa che competa a noi quadri acerebri, succubi e immoti. È in un’area marina sconfinata, comunque, che la vediamo, poco dopo l’alba di un giorno feriale, mentre avanza verso la costa, in quel punto ricoperta di roccia bruna e spugnosa, forse una sorta di tufo. E va, va. Dapprima con forza, poi un tantino moderatamente, infine pianissimo. Ed ecco: la giovane starà a trenta metri dalla strada statale da cui proviene, e almeno altrettanto spazio resta da superare per… non vedere, no, per toccare addirittura quel dio terribile. Dài, su! Animo, piccola! Ma eccola, ahi, la ragazza è… è già ferma sulle piccole dune di sabbia che precedono gli scogli. Gira lo sguardo terrorizzata e vicino un modesto fico d’India le sembra sia l’unica curiosità sufficientemente banale cui aggrapparsi in quel momento liturgico, tremendo: un momento ossequiato sí da un Apollo che sembra benigno, ma pur sempre il momento delle decisioni irrevocabili. Quello che sempre ognuno vive da solo anche se fosse in piazza San Pietro. «Oh, mare, cosa devo fare per riuscire a scattare verso di te?» pensa la ragazza guardando fissamente la pianta. «Dio mio, suggeriscimi una mossa violenta, te ne prego! Un gesto risolutorio». Si gira e la solitudine non le è di alcun conforto. Anzi, tutto sembra immobilizzarla, quasi il mondo la avvisasse di star andando alla perdizione e le dicesse affettuosamente: Fermati, cosa fai, stolta! Retrocedi finché ne hai la possibilità. Mica crederai alle sfide. Ah ah ah! In verità ciascun uomo ha le proprie paure, i propri nemici implacabili: e ognuno, se non è pazzo, evita di sfidare i veri nemici, quelli piú grandi di lui… magari piuttosto affronta i piccoli nemici, gli gnomi facili da sconfiggere. Dunque adesso vòltati, ragazza. E non fare testa a testa con il Mare, ché hai solo da rimetterci, con lui. Cosí Sevdah posa a terra la cetra e si porta la mano destra alla camicetta beige. La tocca. La afferra con ambedue le mani lacerandola in un lampo. Poi via la lunga gonna. Via le mutandine. Via le scarpe di sughero e tomaia giallina. Gli occhi posati in terra, come un automa, afferra lo strumento, si raddrizza e inizia a carezzarlo, intanto camminando, una gamba dietro l’altra come un soldato spartano. Si sposta e le pare evento incredibile, quasi fosse la prima volta che ella si muovesse con gli arti propri: una neonata. Sí. Ecco perché sta nuda.La voce intimidatoria è sparita. Ma non basta. Servirebbe un’altra mossa irrevocabile… anzi moltre alte mosse… che eccole! si svolgono, coraggiose, sotto il cielo turchino mentre Sevdah avanza. Cosí la prima nota esala dalla cetra – che certamente fu di Orfeo – e svolazza abbracciando nell’aria torrida una… giovinetta melanocrinita che non sa bene neanche lei stessa se stia piangendo, cantando, ridendo, danzando o… o… lasciandosi scivolare dal sogno di un pittore alla sua fedele tela, bianca come il foglio di carta che segue quest’ultima parola.
(Lubiana, 19 marzo 2012)
Le immagini: l’acqua a Banja Luka e nella Reggia di Caserta.
Sergio Sozi
(LucidaMente, anno VII, n. 80, agosto 2012)