Lo scatto del singolo nel racconto breve “L’uomo della folla” di Monica Florio, inserito nella raccolta “San Gennoir” (Kairós)
«In prima fila non mi metto mai.
Mi dà fastidio tutta quella gente che applaude dietro di me a qualcuno che non sono io. Già, chi sono io? Uno qualunque. Batto le mani quando è il momento, raramente fischio. Mi mescolo tra la folla indistinta che, compatta, può decretare il trionfo o il crollo delle vostre aspirazioni.
Guardo la sala gremita e prendo posto in terza fila accanto a una comune famigliola: marito, moglie e figlio piccolo.
Con leggero ritardo, da una porticina laterale, fa il suo ingresso sul palcoscenico un attore. Lo osservo mentre avanza col suo abito scuro, la camicia bianca su cui è appuntato il papillon, la paglietta bene in vista. Dietro il pesante trucco di scena intuisco l’età avanzata, ma quando sgambetta e gesticola, strabuzzando gli occhi bistrati, sembra ringiovanire di colpo.
Soggiogato da quella maschera grottesca, mi lascio andare a una risata liberatoria sentendomi parte di un rito collettivo che si rinnova a ogni applauso.
Non resta che una manciata di secondi alla fine della performance: allungo le braccia sulla poltrona e, dopo aver calcolato bene i tempi, mi preparo ad applaudire.
Quindi, in perfetta simbiosi con gli altri spettatori, batto le mani come una marionetta obbediente, una, due volte e poi ancora fino quasi a spellarmele. Non esito a pretendere anche il bis, richiesta che l’attore accoglie prontamente, fingendo di allontanarsi dal palcoscenico per provare, qualche secondo dopo, a superare se stesso. Terminata l’esibizione, al suo inchino, tutti noi, scattando in piedi, gli tributiamo una vera e propria ovazione.
La serata si è conclusa. Mi accendo una sigaretta e, pigramente, nel gettare uno sguardo in direzione dei camerini, mi chiedo, perplesso, perché non mi confondo, come al solito, tra la gente che si avvia frettolosamente verso l’uscita per riversarsi in strada e continuare magari a divertirsi altrove. Invece resto lì, pietrificato, in attesa che il teatro si svuoti del tutto.
Una sagoma maschile mi passa accanto, occhieggiando con impudenza.
Spengo la sigaretta e, nell’oscurità della notte, la seguo, percependone il passo strascicato, il respiro pesante, il tremolio delle mani impazienti. Insieme allo sconosciuto costeggio le vie buie dell’Arenella, inoltrandomi in un dedalo di vicoletti che mi disorientano e, al tempo stesso, mi affascinano per la loro fatiscenza.
Sono quasi sul punto di tornare indietro quando lo sconosciuto, nel salire la scalinata che affaccia su via Domenico Fontana, si volta per indicarmi la propria abitazione. In quell’istante la sua fisionomia mi si rivela familiare, mostrandomi il volto dell’attore.
Avverto un nodo alla gola al solo pensiero di trasgredire quelle regole condivise dagli altri e accettate per convenienza anche da me.
Inspiegabilmente entro nel palazzo antico, dove lui, con un lampo febbrile negli occhi, mi sta aspettando davanti alla cabina dell’ascensore. Quasi le mie mani avessero smesso di ubbidirmi, gli accarezzo con la sinistra la guancia sfatta, devastata dalle rughe, mentre con l’altra mano tasto il coltello a serramanico che porto sempre con me nella tasca del cappotto. Quindi, approfittando della sua immobilità, gli cingo con un braccio la vita, impugno l’arma e gli recido fulmineo la carotide. Contemplo con orrore quel corpo floscio ora riverso ai miei piedi sul pavimento gelido e provo un senso di stanchezza come se mi sentissi svuotato dentro. Recuperando in parte il controllo su me stesso, mi chiudo il portone alle spalle e sono di nuovo sulla strada principale.
Eppure, niente è più lo stesso: una sensazione di disagio si è impadronita di me al punto da farmi detestare il solo contatto con la folla. Con estrema fatica riesco a imprimere una certa elasticità alla mia andatura, resa caracollante dal lungo vagabondare. Come un automa, ostentando una totale indifferenza, schivo gli sguardi insistenti dei curiosi di turno che, a quell’ora tarda, ancora indugiano per le strade.
Giunto sotto i portici di via Cilea, con il bavero del cappotto alzato per placare i brividi di freddo, incrocio un gruppetto di ragazzi che mi chiedono se ho da accendere. A questa banale richiesta oppongo un netto rifiuto, spinto forse dal bisogno di rintanarmi in casa al più presto. Né mi scalfisce più di tanto il tono canzonatorio con cui vengo deriso per il mio comportamento scostante, occupato come sono a scacciare i pensieri che mi affollano la mente. In un altro luogo, poco tempo prima, nel folle tentativo di preservare una normalità che non mi appartiene, ho ucciso un uomo. Solo ora mi accorgo che una parte di me è rimasta con lui, su quel pianerottolo mal illuminato a canticchiare melodie e macchiette d’altri tempi».
(L’uomo della folla, in San Gennoir, a cura di Gennaro Chierchia, Kairòs, 2006)
Monica Florio
LA RILETTURA
Per il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, «la massa la compongono tutti coloro che non si valorizzano […] per ragioni speciali, ma si sentono come tutto il mondo […] e non si angosciano». Secondo Ortega, «questi uomini sono caratterizzati dal fatto di essere slegati dalle tradizioni, senza valori trascendentali e di essere carenti di individualità e autonomia».
Per Ortega y Gasset, una vera società di massa si definisce per la mancanza di differenziazione interna – cosa che, secondo il filosofo, caratterizza la società del passato – e l’omogeneizzazione, dovuta questa all’abbondanza economica, lo sviluppo tecnologico e l’uguaglianza politica.
Uno qualunque – Ma l’insieme, il gregge, lo sciame, il mucchio, la folla, potrebbero un giorno esasperare l’individuo, portato ad abbandonare la massa e a riprendersi la sua individualità, la sua autonomia? Monica Florio, forse inconsapevolmente, con il suo racconto L’uomo della folla (in San Gennoir, a cura di Gennaro Chierchia, Kairòs, 2006, pp. 240, € 12,00) ci mostra un uomo senza nome, «uno qualunque» che applaude a teatro. E il suo battere le mani si confonde con quello di tutti gli altri che acclamano all’unisono così come facciamo anche noi. E’ contagioso l’applauso della folla. Come l’arbitro che con un fischio rompe la tensione e dà il via alla partita, bisogna che ci sia un primo che dia lo spunto, il primo battito di mani che rompa la timidezza del pubblico. E il gioco ha inizio.
Abbandonare la folla – Ma l’uomo «qualunque» di Florio ha una particolarità: sa di essere uno, ha dei valori propri e si sente a disagio per il fatto di avere gli altri che «battono le mani dietro di lui, per uno che non è lui». Un giorno, dopo il teatro, quest’uomo «qualunque» non agisce come il solito automa che esce frettolosamente verso la strada. Quel giorno si ferma. Attende. All’uscita del teatro abbandona dietro di sé la folla e cammina da solo, dietro uno sconosciuto, per la città notturna. L’uomo si ferma: un coltello a serramanico, una carezza nella carotide della preda. Il cacciatore si allontana dal cadavere che poco tempo prima aveva lasciato cadere nel pavimento gelido. Adesso sono i pensieri che gli affollano la mente. Uccidere con normalità, qualcosa che non gli appartiene. Una parte di lui è rimasta sul pavimento gelido. In un testo pieno di colore, la Florio ci fa immergere nel buio, nel silenzio della notte; sentiamo col protagonista i piccoli rumori, il respiro, il tremolio. Ci lasciamo inebriare dal disorientamento labirintico dei «vicoli pieni di fatiscenza». Un viaggio di sensazioni.
L’immagine: la copertina del libro San Gennoir.
Sara Díaz González
(LucidaMente, anno IV, n. 43, luglio 2009)