Al seminario dell’Unciformazione sulla mediazione e la responsabilità medica, tenutosi recentemente a Bologna, Nicola Marzo ha spiegato le prerogative di chi compone le piccole controversie
Per capire chi è il mediatore occorre partire dal Decreto legislativo 28/2010 che lo definisce come «colui che si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di composizione della controversia». Si tratta di una definizione abbastanza chiara, ma non esaustiva. Infatti, il mediatore, oltre all’imparzialità, sua peculiare caratteristica, deve avere una spiccata capacità di relazionarsi col prossimo e la capacità di ascolto attivo; deve possedere una comunicazione efficace, quindi l’abilità di entrare in empatia con il proprio interlocutore. Deve essere dotato, inoltre, di una discreta apertura mentale e deve avere autorevolezza nella gestione del conflitto tra i soggetti. Insomma, deve riassumere in sé tutte quelle peculiarità che lo fanno assurgere a dominus della procedura di mediazione. Una sorta di leader del procedimento.
Gli studiosi della materia paragonano il mediatore a un “laborioso ago che cuce”, perché la sua precipua attività è quella di ricucire lo strappo che si è consumato tra i soggetti ricorsi in mediazione. La sua attività è, infatti, lunga e piena di insidie e di trappole, che potrebbero, da un momento all’altro, far saltare la mediazione. Questa attività ha come oggetto l’esplorazione degli interessi e dei bisogni dei soggetti e il superamento delle loro pretese, rappresentate dalle rispettive posizioni. È indispensabile conoscere come si configura un conflitto tra due persone, prima di addentrarsi nella spiegazione di come agevolarne la soluzione. Il conflitto tra soggetti è rappresentato come un iceberg: solo il 10 % emerge dal livello dell’acqua; la quantità maggiore della massa è sommersa e al mediatore è affidata la missione di scoprirla. Ragionando sempre con questa metafora diremmo che la massa sotto il livello dell’acqua è costituita dagli interessi, che sono il vero movente del conflitto e che, talvolta, hanno per oggetto i bisogni.
Abraham Harold Maslow, uno psicologo degli anni Cinquanta, fece una classificazione dei bisogni, sistemandoli in un ordine piramidale. Alla base ci sono i bisogni fisiologici, rappresentati dal bisogno di nutrirsi, di coprirsi, di avere un luogo dove ripararsi. Poi, andando verso l’alto, vengono i bisogni relativi alla sicurezza; andando ancora in su, ci sono i bisogni d’affetto e, poi, quelli relativi alla stima, per arrivare ai bisogni di autorealizzazione. Vedete come, a mano a mano che si risale la piramide di Maslow (così si chiama), i bisogni divengono sempre più caratterizzati da una connotazione interrelazionale. Si passa, infatti, da bisogni primari a bisogni che hanno implicazioni sulla propria autostima in relazione ai rapporti col prossimo. Spesso, dietro un litigio o in un contenzioso tra due persone, ci sono questi riflessi, che vanno ben al di là dell’apparente casus belli. Per rendere ancor più chiaro il concetto, ci avvarremo di un altro esempio, quello del buco della serratura. Immaginiamo che il mediatore abbia la limitata possibilità visiva di guardare al conflitto tra due soggetti attraverso il buco di una serratura, appunto. Da questo campo visivo si scorgono solo le posizioni dei soggetti, cioè le loro pretese.
Il mestiere del mediatore è quello di andare oltre le pretese, cioè oltre quello che appare a prima vista e quello che gli stessi soggetti tengono a far apparire. Tutto questo il mediatore lo deve fare tramite un attento e certosino lavorio, che consta del saper ascoltare, saper fare domande, saper creare un clima di fiducia tra sé e l’interlocutore, saper instaurare un rapporto di proficua collaborazione. Insomma, deve mettere in pratica tutte quelle abilità che dicevamo all’inizio. A lui si addice quell’antico proverbio in base al quale “chi sa parlare e sa ascoltare attraversa il mare”. Tramite questo lavorio il mediatore sarà in grado di abbattere le barriere che si frappongono tra sé e i soggetti e tra i soggetti medesimi e che sono costituite da diffidenza, pregiudizi e tutto ciò che rende difficoltoso l’affiorare dei loro interessi. In tal modo egli saprà finalmente aprire la porta, per riprendere l’esempio, avendo così un punto di vista più ampio, e scorgere importanti elementi utili alla soluzione del conflitto: gli interessi e i bisogni.
Il mediatore deve ampliare, dunque, l’angolo della propria visuale e deve essere in grado di portare gli attori del conflitto a cambiare essi stessi il proprio angolo di visuale riguardo al conflitto medesimo. Per dirla con Einstein: «Non possiamo risolvere un problema con le stesse categorie mentali che abbiamo usato per generarli. Abbiamo bisogno di un nuovo modo di pensare per risolvere i problemi causati dal vecchio modo di pensare». Un’altra considerazione da esporre è la seguente: il mediatore non è vincolato alle categorie torto/ragione, giusto/sbagliato. Nell’attività di mediazione non si ragiona in termini di opposti; si esce dalla concezione filosofica della causalità lineare, per cui a ogni causa corrisponde necessariamente una conseguenza collegata alla prima da una sorta di linea continua. Tale concezione è, semmai, più adatta a chi è abituato a ragionare in termini di diritto, laddove a ogni diritto corrisponde specularmente un dovere.
Alla mediazione si attaglia la logica della causalità circolare, nella quale il rapporto causa-effetto non è una conseguenza in linea retta, proprio perché le dinamiche umane sono complesse e i conflitti tra gli uomini presentano molti aspetti collaterali oltre a quelli principali. Tenendo ben presenti questi punti fondamentali, il mediatore deve ristabilire un canale comunicativo tra i soggetti e favorire la negoziazione tra di essi. Quanto più è aperta la comunicazione, tanto più la negoziazione ha maggiori possibilità di una buona riuscita. Il mediatore che evidenzia gli interessi e i bisogni dei soggetti potrà lavorare a una negoziazione cosiddetta “cooperativa”. Se invece essa avviene mantenendo le posizioni iniziali, e quindi le proprie pretese, allora sarà “distributiva”. Da questa deriva una transazione, mentre dalla prima nasce la conciliazione, che è l’esito positivo dell’attività di mediazione.
Inoltre, la mediazione può essere di tipo facilitativo e di tipo “valutativo”. Nel primo caso il mediatore adempie il proprio compito sollecitando un accordo spontaneo dei soggetti, che rimangono per l’intero procedimento i protagonisti della soluzione della loro controversia. Nel secondo, oltre ad assistere i soggetti e accompagnarli verso una soluzione, il mediatore, quando si accorge che l’accordo non risulta possibile, può egli stesso proporre una soluzione ed è tenuto a proporla quando i soggetti ne facciano richiesta. Quest’ultima concezione è quella accolta dal Dlgs 28/2010. Quella che si insegna ai corsi formazione dell’ Unione nazionale cooperative italiane (Unci) è la mediazione “facilitativa”, che è quella pura. Si istruiscono gli allievi, aspiranti mediatori, su come atteggiarsi nelle varie fasi del procedimento di mediazione: nella sessione congiunta iniziale, nelle sessioni private e nella successiva sessione congiunta finale.
Una peculiarità della mediazione è che l’accordo è il risultato spontaneo della collaborazione dei soggetti, facilitata e assistita dal mediatore. Quindi, si può parlare di soluzione “autonoma”. Diversamente dall’arbitrato, per esempio, dove un terzo imparziale dispone un lodo che vincola le parti. La soluzione in questo caso è “eteronoma”. Quando si parla della mediazione come modalità alternativa di risoluzione delle controversie, ci si riferisce anche alla sua proprietà di risolvere il conflitto partendo dal presente e operando per il futuro. Il processo, invece, è un simulacro della verità. Si propone di ricostruire la realtà ed è proiettato nel passato. Si può tranquillamente dire che, in virtù della caratteristica appena evidenziata, la mediazione è uno strumento di pacificazione sociale. Essa non solo ha il pregio dell’idoneità alla soluzione di un contenzioso, ma, proprio perché l’accordo scaturisce dalla volontà dei soggetti in un tempo presente, questo è destinato a essere duraturo.
La mediazione è degna, dunque, di una considerazione a sé, per nulla secondaria e collaterale ai mezzi tradizionalmente concepiti per la soluzione dei conflitti tra gli uomini. Essa possiede, a nostro avviso, una sua dignità e sarebbe un errore relegarla in una dimensione ancillare rispetto al processo. Per la nostra cultura è ancora una bambina che cammina carponi e ha bisogno di crescere prima di camminare dritta sulle proprie gambe. Il suo successo dipenderà non solo da un salto culturale, appunto, che il nostro Paese è chiamato a fare, ma anche dalla qualità dell’offerta formativa che gli enti di formazione sapranno mettere a disposizione degli utenti. Insomma, il buon esito della mediazione dipende per buona parte dalla capacità di mettere in campo degli ottimi mediatori.
Su argomento analogo, e a firma dello stesso autore, LucidaMente ha pubblicato anche Conciliazione giudiziale, una questione di cultura, una necessità civile.
Nicola Marzo
(LucidaMente, anno VII, n. 78, giugno 2012)
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