Tra psicanalisi e misticismo: come interpretare “Decomposizione di Dio” di Rino Tripodi
Di Decomposizione di Dio. Un racconto e cento apologhi tra Kafka e Cioran (seconda edizione, Prefazione di Raffaele Riccio, pp. 104, € 12,00; anche in versione ebook, presso Amazon, a soli € 1,70) di Rino Tripodi – seconda uscita della collana di letteratura Nerissima delle nostre edizioni – l’esperta di Comunicazione Luciana Rossi offre una particolare lettura, quasi “mistica”, che pubblichiamo di seguito.
L’ultimo, originale libro di Rino Tripodi è un testo incisivo, che coinvolge, o piuttosto turba, ma che non può lasciare indifferenti. Leggendolo, mi sono trovata subito in un territorio a me familiare, tra paesaggi della mente che riconoscevo.
Lo stile scarno usato ha la trasparenza del cristallo e del ghiaccio. Dà veramente quella sensazione di freddo che capita di provare nei luoghi disadorni − ma a volte anche, e forse ancora di più, in quelli grondanti di memorie − quando qualcosa dentro comincia a pensare davvero che quel Dio di cui si parla ti abbia dimenticato. L’uso continuo del presente, un tempo che sembra appartenere alla sfera dell’assoluto, risulta martellante, battendo gli istanti e i minuti e scandendo le “famose” o famigerate, interminabili, ore (The hours, per citare un libro-film) che devono passare, irredimibili, una dopo l’altra, senza poterle fermare né dimenticare. Diventa veicolo di una percezione lucida, sottesa tra stupore e presa di coscienza, di una realtà che costantemente si trasfigura, perché il presente è anche questo: una rivelazione continua.
L’ingenuità e l’archetipo del mare
Profondo e sottile il racconto iniziale della peregrinazione mistica (Il pellegrinaggio ad Atar’sh), superba la descrizione dell’ingenua baldanza con cui ci apprestiamo ad affrontare la vita dai nostri panorami mentali, senza alcuna idea di ciò che incontreremo veramente. Ho riconosciuto le immagini del mare gigante, nero, potente, presentate in certi brani, immagini che la mente propone spontaneamente traendole dalla realtà archetipica, forse divina, forse furiosa, che sta dentro di noi.
Dal 1991 al 2006, per circa quindici anni, ho navigato per due mesi all’anno in barca a vela nel Mediterraneo meridionale e orientale: Tunisia, Baleari, Grecia, Cipro, Turchia, Libano, Israele. Così, soltanto per cercare il silenzio. Stare, in due persone, su nove metri di “plastica” in mezzo all’alto mare, a volte anche in condizioni difficili, turnandosi notte e giorno, abbatte la resistenza della mente e rende vulnerabili e scoperti. Essere lì vuol dire aver acconsentito a che le immagini che urgono nelle zone più antiche e misteriose dell’anima si producano e sgorghino generose e fluenti, non sempre rosee.
La narrazione, nel corso del libro, attinge largamente a questi contenuti profondi della psiche, in modo che ne siamo contaminati, sommersi forse, e forse illuminati.
Il nero, le luci false, le ombre
Oscurità, luce, oscurità… luce. Ho sempre notato come proprio il nero, dal quale non riesco a staccarmi ormai da diversi anni, fa risaltare i colori in maniera straordinaria, anche una piccola goccia di viola. Come una pietra nera abbia una luce tutta sua, che brilla verso l’interno, densa e intima, e avvolgente. Il nero è negazione, è silenzio, il nero sublima. E’ sempre un cielo nero, notturno, profondo che sento quando mi spingo a percepire lo spazio dentro il mio corpo.
Chiunque si sia cimentato nel disegno, anche soltanto un po’, sa bene che sono proprio le ombre a dare “spessore” e profondità alle cose, a renderle tridimensionali. Sì, le ombre.
Ugualmente – ho sempre constatato – è per le persone, e diffido di quelle buone e solari a senso unico, dei “pezzi di pane”, come la gente suole chiamarle. Anche loro, lo so, hanno dentro dei mostri, e quando scoprono, magari in un’occasione in cui l’aver subìto un torto li legittima agli occhi della gente, di poter fare del male a loro volta, sono i peggiori.
Ciò che vediamo di noi stessi è solo la punta dell’iceberg. Sapere che per la maggior parte degli individui le motivazioni che stanno dietro le loro azioni sfuggono anche a loro stessi non è fonte di giudizio ma solo un metro per orientarsi di volta in volta su quale passo fare a seconda della forza che abbiamo, da guerrieri.
Non temo invece le ombre di chi sa di averne, non le ho mai temute: esse esprimono una non sopita aspirazione dell’essere alla propria integrità e completezza, sono energie che aspettano solo di essere liberate, di rivelarsi e di fiorire nella realtà, per potersi superare di nuovo, in un percorso non sempre lineare, ma che, come la peregrinazione mistica del libro di Tripodi, conduce fatalmente alla conoscenza.
Il Tantra e Hillman
La consapevolezza è senza alcun dubbio luminosa, ma non tutto quello su cui essa getta luce può dirsi fulgido.
Bene lo rappresentano nel Tantra le energie elementari, entro le quali le nostre emozioni sono forme non liberate di energie purificate e assolute. Divinità furiose o danzatrici del cielo, e l’ira diventa chiarezza; l’orgoglio, aspirazione alla purezza originaria; l’invidia, fonte di efficacia; il desiderio, una sete di puro, infinito piacere e l’ignoranza rispecchia la consapevolezza dello spazio dinamicamente in trasformazione. Bene lo rappresenta – a ciascuno con la sua propria voce – il Kali Yuga, l’epoca di Kali, dea della distruzione, in cui (pare) ci troviamo ora.
O James Hillman, quando asserisce che l’anima patologizza per sua natura. Dell’oscurità atavica, inesprimibile che il femminile profondo cela in sé credo non ci sia nemmeno bisogno di parlare.
Il grande nulla
Riguardo alla fine del pellegrinaggio, come si configura nel libro di Tripodi, penso che affermare la supremazia di un Dio crudele e beffardo sia già troppo, o forse ancora troppo poco.
La malvagità implica il suo opposto e il distinguere si snocciola già nel piano del tempo, della relatività e non più in quello dell’assoluto, indiviso per definizione.
Quello che io posso dire, per aver sbirciato fortunosamente “di là”, è che esso è un grande nulla senza qualità, indifferente, indifferente persino alla malvagità, che non ti risponde ma c’è, e la percezione di una straordinaria potenza, un’energia inimmaginabile. Un nulla, ma che ti avvolge in un abbraccio irresistibile. Forse è proprio questo che attira le persone che stanno per morire, che a un certo punto sembrano viaggiare una velocità tutta loro, fino a scomparire dal breve raggio di “frequenze” che chiamiamo “vita personale”.
Un’energia incredibile, strabiliante che, giunti sulla soglia, è capace di attirare “al di là” l’essere, più di tutto quello, messo insieme, che riesce a trattenerlo di qua, legato all’esistenza come la conosciamo.
Savitri di Sri Aurobindo
Per concludere questi miei pensieri sparsi, suscitati dalla lettura di Decomposizione di Dio di Tripodi, ho scelto un brano da Savitri. Leggenda e simbolo (Edizioni Mediterranee), di Sri Aurobindo.
Il mito è tratto dal poema epico indiano Mahabharata: Savitri è la figlia di un re, che affronterà il dio della Morte per ottenere il ritorno del suo sposo alla vita.
Sri Aurobindo, cresciuto in Inghilterra, ha combattuto per l’indipendenza dell’India, subendo anche un periodo di prigionia. Poi ha scelto di condurre una rivoluzione che procedesse da “dentro l’uomo”, ed è stato da allora un maestro spirituale. Egli asserisce che è proprio la materia che deve essere liberata risollevando in essa quella coscienza che nella sua ottusità fisica sembra dimenticata o offuscata. Intuizioni, che le oscillazioni subatomiche della materia sembrano confermare.
Sorgere, ricordando. La caduta è allora questo oblio? Oltre ogni dualità, la liberazione non può che essere totale, definitiva: una lotta strenua contro il “Male”, o, piuttosto, una lenta e inesorabile immersione in esso per esserne sopraffatto e liberarlo trasformandolo con l’apporto e il sacrificio della propria energia (Gesù? Neo, l’Eletto, in Matrix Revolution? Lo schema è troppo costante per non esserci qualcosa di vero).
In questo brano (libro II, canto VII) il re, padre di Savitri, fa esperienza di una Discesa nella Notte, ed egli descrive proprio l’inferno, nell’attimo in cui il Male sta per avere (o avrà) la meglio. Chi può descrivere l’inferno meglio di un maestro spirituale? Trovo affascinante questa raffigurazione, perché è nuova, inconcepibilmente semplice, essenziale, qualcosa a cui forse non avevamo pensato:
«Egli lottava per proteggere lo spirito dalla disperazione,
ma sentiva l’orrore della Notte crescente
e l’Abisso levarsi a reclamare la sua anima.
Cessarono allora le dimore e le forme delle creature:
la solitudine l’avvolse nelle sue pieghe silenti.
Tutto svanì d’un tratto come un pensiero espunto;
il suo spirito divenne un golfo spalancato all’ascolto,
vuoto della morta illusione di un mondo:
nulla restava, neppure un volto cattivo.
Era solo, con il grigio pitone della Notte.
Un Niente denso e anonimo, cosciente, muto,
che sembrava vivo, ma senza corpo né mente,
agognava d’annullare tutti gli esseri
per poter esistere eternamente nudo e solo.
Come nelle fauci impalpabili di una bestia amorfa
Afferrato, strangolato da questa macchia avida e vischiosa,
attratto verso una specie di bocca nera gigantesca,
una gola trangugiante, un enorme ventre di rovina,
il suo essere disparve alla sua propria visione,
tirato verso i baratri che avevan fame della sua caduta.
Un vuoto informe opprimeva il suo cervello che dibattevasi,
un’oscurità macabra e fredda intirizziva la sua carne
[…]
Come il mare avanza verso una vittima legata e immobile,
allarmò la sua mente per sempre muta l’avvicinarsi
di un’implacabile eternità
di dolore umano e intollerabile.
Questo doveva sopportare: la sua speranza del cielo alienata;
doveva esistere sempre, senza la pace dell’estinzione,
in un Tempo lento e sofferente e uno Spazio torturato,
un niente angosciato il suo stato senza fine.
Una cavità senza vita era ora il suo petto,
e lì dove un tempo era il pensiero luminoso,
restava solo, pallido spettro immoto,
un’incapacità d’aver fede e sperare
e l’atroce convinzione di un’anima vinta,
ancora immortale ma che ha perduto la sua divinità,
perduto il suo sé, e Dio, e il contatto di mondi più felici.
Ma lui resistette, fece tacere il vano terrore, sopportò
le spire soffocanti dell’angoscia e del panico;
tornò allora la pace e lo sguardo sovrano dell’anima.
All’orrore assoluto rispose una calma Luce:
immutabile, imperitura e non-nata,
possente e muta la Divinità in lui si destò
e affrontò il dolore e il pericolo del mondo.
Egli dominò con uno sguardo le maree della Natura:
col suo spirito nudo incontrò l’Inferno senza veli».
L’immagine: la copertina di Decomposizione di Dio. Un racconto e cento apologhi tra Kafka e Cioran di Rino Tripodi, inEdition editrice/Collane di LucidaMente).
Luciana Rossi
(LucidaMente, anno IV, n. 41, maggio 2009)