Lo scorso 30 settembre rappresenta una data importante nella storia dell’integrazione sociale a Bologna: la chiusura del campo profughi di Trebbo di Reno, l’ultimo rimasto nel nostro territorio, che segue quelle di Villa Salus, del Piratino e di Pianazza, conclude la prima fase di un progetto per l’inserimento sociale delle famiglie.
In realtà questo epilogo positivo giunge dopo una lunga e travagliata storia…
Un’emergenza durata tredici anni: il parere dell’assessore Monica Sabattini
Il campo di Trebbo di Reno risale al 1995 e fu costruito per accogliere i profughi della guerra del Kosovo per un periodo di nove mesi che, secondo Monica Sabattini, assessore alle Politiche sociali e all’Immigrazione del Comune di Castel Maggiore, sono diventati tredici anni a causa della cattiva gestione da parte del Comune di Bologna.
“Nei primi anni – racconta l’assessore – scoppiò uno scandalo sulla cooperativa che gestiva la portineria, che si è intascata un sacco di soldi. Durante l’amministrazione Vitali, la politica del Comune di Bologna è stata assistenzialista e punitiva, cioè contraddittoria, poi, quando è salito Guazzaloca, Bologna è sparita, lasciando in carico al nostro distretto sanitario l’assistenza medica degli abitanti del campo, benché la competenza spettasse a Bologna. Solo con l’ultima amministrazione siamo riusciti a ristabilire un dialogo, grazie anche alla vicesindaco di Bologna, Adriana Scaramuzzino, che si è circondata di nuove figure professionali che stanno operando nella direzione giusta”.
La chiusura dei campi a Bologna è in linea con le sollecitazioni che arrivano sia dalla Regione che dall’Europa: evitare la politica dei campi serve anche ad abbattere lo stereotipo per il quale i rom sono nomadi e non hanno bisogno della casa. Infatti le condizioni culturali di quei popoli, serbi e kosovari albanesi, sono molto cambiate negli ultimi cinquant’anni e, prima che scoppiasse il conflitto bellico, nel loro paese quelle persone vivevano in case e lavoravano. “Questo – sottolinea la Sabattini – grazie al notevole sistema di integrazione prodotto dal substrato politico-culturale dell’allora Governo jugoslavo e dal retaggio titino”.
Il patto tra i due comuni
In virtù dei ritrovati buoni rapporti tra Bologna e Castel Maggiore, nell’aprile di quest’anno i due comuni hanno stipulato un patto che prevedeva per Bologna l’impegno di chiudere il campo entro settembre, occupandosi dell’inserimento sociale, lavorativo e abitativo delle persone, mentre Castel Maggiore si sarebbe fatta carico della continuità scolastica dei minori.
“Abbiamo partecipato attivamente con il Comune di Bologna – aggiunge l’assessore – agli incontri in Prefettura per la regolarizzazione delle persone sprovviste di titolo di soggiorno e abbiamo continuato a fare le cose di sempre, dando sostegno alle famiglie con minori e lavorando sulla scuola”.
La nuova sistemazione delle famiglie
La maggioranza delle persone provenienti dal campo di Trebbo è stata sistemata in alloggi privati dal Comune di Bologna attraverso l’intercessione della cooperativa Il Mosaico, che ha reperito i contatti dei proprietari sul mercato immobiliare. Castel Maggiore si è invece occupata dell’inserimento delle famiglie rom negli alloggi Erp (Edilizia residenziale pubblica).
In risposta alle polemiche dell’opposizione politica, che lamenta i privilegi concessi ai profughi, Monica Sabattino afferma: “Queste famiglie, come altre italiane, erano in graduatoria Erp da due anni, per cui non c’è stato nessun superamento, è semplicemente l’attribuzione di un diritto”.
Secondo Chris Tomesani, tecnico responsabile dell’Ufficio Sviluppo e Integrazione culturale, la cifra di 200 mila euro stanziata dal Comune di Bologna e finanziata dalla Fondazione Carisbo per l’intera operazione, è inferiore a quella necessaria per la gestione di un solo campo nomade. Per i primi quattro anni degli otto previsti dal contratto d’affitto, il Comune contribuirà per il 50%25 al pagamento di ciascun canone, dopodiché si spera che le famiglie abbiano raggiunto l’autonomia economica necessaria per cavarsela da sole.
La scelta di sostenere queste persone è dovuta anche all’evidente difficoltà in cui versano gli ex abitanti del campo: ancora la Sabattini afferma infatti che lasciare un campo dopo tredici anni è come per un pulcino uscire dal guscio. “Dobbiamo capire e rispettare le diverse tendenze culturali ma anche avviare a una convivenza rispettosa della nostra comunità: i bambini devono andare a scuola, gli adulti devono avere un’attività ed essere autosufficienti, l’integrazione va fatta con un patto reciproco”. Un ostacolo ancora forte è la ritrosia nei confronti delle donne, che spesso sono vittime di violenza familiare e il cui lavoro viene visto come segnale di un’emancipazione non gradita.
“Ma questi peccati culturali – conclude l’assessore – si superano probabilmente con le generazioni”.
L’immagine: il “cancello” del campo di Trebbo di Reno.
Luca Manni
(LM MAGAZINE n. 6, 21 novembre 2008, supplemento a LucidaMente, anno III, n. 35, novembre 2008)
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