A Bologna, d’estate, il clima si fa davvero insopportabile. L’aria è talmente calda e umida che ti si appiccica addosso come un sudario o come plastica bagnata. È allora che ti sembra di essere dentro una palude, una grande palude, dove al posto dell’acqua ristagnante c’è l’asfalto delle strade; il cemento delle case e dei palazzi sostituisce alberi e vegetazione marcescente, e il ronzio continuo degli insetti viene rimpiazzato da quello dei motori delle auto e degli scooter.
Le lente e sfibranti giornate
Le giornate si susseguono lente, ripetitive e sfibranti simili a gocce che cadono da un rubinetto guasto, e più queste scorrono, più la città si svuota di quelle che per alcuni sono le sue maggiori attrattive, mentre per altri i suoi maggiori problemi… Di giorno non ci sono più le vie ricolme di gente che si affretta verso il lavoro, di chiassosi ragazzini che hanno saltato la scuola e di studenti universitari estremamente rilassati o estremamente frettolosi; di sera, e di notte, via via diminuisce fino quasi a scomparire il continuo fluire di gente sotto i portici diretta verso pub o discoteche, svaniscono i capannelli e i bivacchi nelle piazze che quasi si trasformano anch’esse in locali, sparisce il frastuono che esce da quest’ultimi o dalle finestre degli appartamenti nei quali si festeggia chissà che cosa. Sfuma, insomma, quel generale sottofondo di musica, chiacchiere e urla; quel diffuso “odore” più o meno concreto e percepibile – o a volte solo immaginario – di birra, vino, ragazze e sigarette che, volenti o nolenti, caratterizza la nostra città.
Già, di questi argomenti i telegiornali ci parlano fino all’esaurimento nel periodo estivo, come se uno da solo il caldo non riuscisse a sentirlo o non riuscisse a vedere che la gente se ne va o come se precedentemente non vi fossero mai state altre torride estati. Forse, infine, tutto ciò rientra nel fascino un po’ malinconico, languido e “postumo” di queste giornate o, probabilmente, è solo giusto che anche la città si riposi un poco dopo tutti i mesi passati a sopportarci, a farci divertire o incazzare.
Il “sottofondo musicale” sfuma, però non scompare mai completamente neanche d’estate, neanche con 35 gradi e un’umidità da giungla tropicale: si affievolisce, ecco, per poi ricomparire in modo ancor più deciso e inequivocabile, quasi a voler confermare la sua presenza o a voler ribadire la propria superiorità anche, perché no, rispetto all’ordine, al degrado o alle leggi.
Una sera al Parco Nord
È proprio in una di queste giornate, il 22 luglio, che all’Arena Parco Nord vengono a suonare i Metallica e il “sottofondo musicale” riesplode nella sua totalità. Questo gruppo rimane una delle colonne portanti del rock e un loro concerto è per i sostenitori un evento storico.
Il piazzale coi parcheggi di fronte all’Arena, le zone residenziali e i posteggi privati delle vicinanze sono intasati di auto fin dalla mattinata. Gli autobus che portano nei dintorni sembrano sul punto di scoppiare tanto sono colmi. I viali e via Stalingrado sono un unico serpente di persone appiedate che rigurgita il proprio contenuto davanti ai cancelli dove stazionano la solita comunità di bagarini che vendono i biglietti, bancarelle con le magliette e i gadget più svariati che per accattivarsi la clientela mettono sullo stereo i cavalli di battaglia del gruppo di turno, sbronzi e addormentati sulle panchine o sui prati, telecamere per interviste più o meno programmate, sportelli d’automobile arroventati e aperti a lasciar uscire la musica e a far entrare un immaginario filo d’aria. Quando ci si mette in fila per entrare c’è caldo, c’è polvere, c’è l’odore di sudore misto a tanti altri non ben identificabili e la collina che circonda e racchiude l’Arena sembra come la cima irraggiungibile di un monte o del purgatorio stesso. Alla fine, però, strappano il biglietto, controllano lo zaino, ci si inerpica sul dosso e finalmente si è dentro.
Ed è un’ininterrotta moltitudine di persone, come un formicaio gigantesco; tra gli uni e gli altri quasi non c’è spazio e per trovare un posto a sedere sull’erba, mentre si aspetta l’inizio, bisogna darsi da fare non poco. Il caldo e il resto ormai hanno poca importanza – ne avevano poca anche prima a dire il vero – perché tutti sono lì con un unico fine e attendono un unico momento. Intanto si è immersi nel rumore che produce il vociare di così tante persone. Si ascoltano le canzoni che riempiono i minuti tra le esibizioni dei gruppi spalla – uno di questi sono i Down di Phil Anselmo che con i suoi Pantera rappresenta un’altra pietra miliare del genere – e le esclamazioni pronunciate in tutti i dialetti nostrani o in lingue straniere; si osservano distese di capelli lunghi, foreste di borchie e bracciali, masse di ragazzini senza l’età per la patente, personaggi che vent’anni li avevano vent’anni prima e famiglie coi bambini in spalla; si fissano ragazze più nude che vestite e talmente truccate da sembrare delle grandi bambole che hanno abbandonato il sentiero della loro fittizia innocenza per lanciarsi con gusto, abnegazione e consapevolezza su quella via della perdizione tanto ostentata quanto, probabilmente, altrettanto fittizia.
Quando il sole inizia a scendere i Metallica arrivano sul palco e inizia il loro concerto e del tempo in cui suonano non rimane un ricordo preciso ma piuttosto una serie di impressioni e di immagini: l’ovazione, scaturita improvvisa con le prime note, come un ruggito urlato da migliaia di bocche; il battere di migliaia di mani all’unisono su certi intermezzi; il cantare in coro di migliaia di gole su certe strofe; l’accendersi, nella sopraggiunta oscurità, di migliaia di accendini su certi pezzi; la spinta, più o meno violenta, di migliaia di braccia sul proprio corpo.
Ecco che il “sottofondo musicale” della città si riprende il suo spazio, anzi, durante concerti come questi, è la città che diventa spazio della musica e chi vi partecipa dimentica se stesso per confondersi in un corpo collettivo che agisce e “vive” come un corpo solo e, dentro di esso, ha la sensazione di poter realizzare ogni cosa: in questo senso i concerti sono – insieme a poco altro – quanto di più vicino a un rituale collettivo sia rimasto nella nostra società contemporanea.
La camera di Angelo e Wallace e i Ginga Bande
Ma quanto spazio reale e quotidiano, al di là dei luoghi comuni o di eventi “eccezionali”, ha la musica a Bologna? Quanto è rumoroso questo “sottofondo musicale” e quanto corrisponde alle aspettative e alle aspirazioni di chi la musica non solo la ascolta, ma la fa, e cerca di farla ascoltare?
Gli appartamenti degli studenti universitari si assomigliano quasi tutti: piccoli, in genere affollati o sovraffollati, vestiti sparsi, mozziconi di sigarette, letti sfatti, telefonini squillanti o vibranti, odore di pranzo costante spesso accompagnato anche da qualche suo resto, “poster” – che prima di diventare tali erano stati cartelloni pubblicitari, locandine, volantini, giornali etc. – attaccati alle pareti e tra i quali sbucano frequentemente un Hendrix e un Che Guevara in mezzo a cosce e tette.
La camera dove sono Angelo e Wallace non è molto differente, solo che questa assomiglia pure a una sala prove o di registrazione: strumenti, mixer, amplificatori, microfoni e tutto il resto. Angelo e Wallace suonano la chitarra, il basso e il cavaquinho – uno strumento simile a una piccola chitarra accordata in modo particolare – nei Ginga Bande, gruppo formatosi nel febbraio scorso, e che vede anche “Marta alla voce, Jambo al pandeiro (uno strumento a percussione somigliante a un tamburello e molto usato in Brasile), Thiago alle percussioni e Lazzaro al carron (altro strumento a percussione, di forma quadrata, che si suona standovi seduti sopra)”.
Sono ragazzi giovani e quasi tutti studenti, per loro “il bello di suonare è divertirsi”, spiegano i due, “e anche se non ci si vive qualche entrata arriva sempre”. In queste frasi ci sono la voglia e la passione tipiche della giovinezza, anche se a esse si trovano già mischiate la consapevolezza delle difficoltà presenti per emergere o anche solo per trovare un “posto che ti faccia suonare, soprattutto roba tua”. Forse il tempo in cui si sognavano i grandi palchi o nel quale con leggerezza, convinzione e spensieratezza ci si identificava totalmente con la musica, i suoi personaggi e i suoi modi di vivere, se ne è andato insieme al passare degli anni e delle esperienze. O, più probabilmente, qualche briciola – grande o piccola – di quel periodo è rimasta riposta in qualche tasca interna e sicura.
Angelo e Wallace continuano, durante questa sonnacchiosa serata estiva, a spiegare la musica dei loro Ginga Bande: “La nostra è Bossa Nova, un misto di hip-hop e samba, o più precisamente Bossa Groove [che rispetto alla precedente ha influenze più funky, ndr], insomma un mix di strumenti e stili musicali in cui l’improvvisazione è fondamentale”. A loro avviso, Bologna, rispetto ad altre realtà, “ha un movimento underground molto valido e, dato anche il nostro genere e nonostante alcune normali difficoltà iniziali, non è particolarmente difficile trovare da suonare: in posti come l’Arteria, il Lazzaretto o in alcuni bar, come il Bar dei Marchi, ci siamo sempre trovati bene”.
Una parte non è il tutto
Certo, Bologna è una città universitaria, vivace e giovanile – o almeno è da sempre che viene descritta in questo modo – quindi è intuibile che abbia spazi da offrire a coloro che cercano di condividere la propria creatività ed è ipotizzabile che per quest’ultimi vi siano più porte – larghe o strette – pronte – con maggiore o minore fatica – ad aprirsi: e in parte è così. Ma una parte non è il tutto. Il malcelato rincrescimento e la sottile rabbia che emergono da una frase dei due musicisti lo testimoniano chiaramente: “A livello generale manca spesso l’ispirazione, si spazia veramente poco. È come il lavoro di un impiegato, fai le tue due o tre cose, i tuoi due o tre compiti, e hai finito”.
Ci sono grandi spazi, imponenti come arene, e piccoli spazi, angusti come camere in affitto o sale prove. Questi spazi a volte si confondono: l’emozione per poche decine di persone plaudenti è uguale a quella per l’acclamazione di migliaia; la potenza del sogno di poter fare un giorno la propria musica è uguale alla potenza della musica che già ha fatto sognare generazioni di fan; la soddisfazione ricavata da pochi euro di compenso è uguale a quella per profitti milionari. A Bologna questi spazi ancora esistono e si intrecciano – anche se con problemi o in modo diverso da come lo si immagina solitamente – e sono attraversati da un “sottofondo musicale”, composto dalle stesse note, sebbene eseguito in tonalità differenti.
L’immagine: foto del Parco Nord durante il concerto dei Metallica.
Luca Faccioli e Luca Masi
(LM MAGAZINE n. 4, 15 settembre 2008, supplemento a LucidaMente, anno III, n. 33, settembre 2008)