Hanno dello straordinario le circostanze che hanno permesso la pubblicazione, post mortem, della produzione poetica di Rina Pachioli (Perugia, 1909-Bologna, 2006), con il titolo complessivo di Una bottiglia abbandonata nel mare (a cura di Sergio Givone, con una nota di Paolo Rossi, il melangolo, pp. 84, € 12,00).
Lo stesso Givone, infatti, afferma che delle quasi duecento poesie composte tra il 1933 il 2005 “l’autrice non aveva mai fatto parola con alcuno e tuttavia volle farle pervenire, vero e proprio lascito in assenza di esecutore testamentario, a chi sarebbe venuto dopo di lei”. Dell’opera postuma della letterata (insegnante di scuola media a Bologna dal 1932 fino alla pensione), sono state scelte per la pubblicazione quarantotto poesie; come scrive Rossi, “non scritte per coloro che hanno vissuto una vita vicino alla sua vita. Sono scritte soltanto per quelli che saranno vivi, quando lei non sarà più tra i vivi”.
Una citazione, infine, per la nostra Valentina Conti (direttrice della collana di narrativa La scacchiera di Babele della inEdition editrice), che, con pazienza e precisione, ha trascritto il materiale della Pachioli.
Della raccolta – nella quale spesso riscontriamo un afflato religioso – riportiamo ben cinque componimenti, tra cui quello da cui è stato tratto il titolo complessivo. I temi dominanti sono il tempo che passa, od ormai definitivamente trascorso e la vita che fluisce stancamente, ma inesorabilmente, verso la morte, evento che l’autrice sembra attendere serenamente, talvolta quasi come una liberazione.
La terra promessa (Primavere d’esilio)
Primavere dei tempi
irripetibili:
immerse nella luce di sempre,
nella luce di mai.
Si squarcia la spenta vertigine
di cenere e d’anni,
né a voi più rilutta la vita.
Ancora, a suo strazio ed inganno,
fronteggia vivente e remota,
di là dal coriaceo grigiore
di questa verzura d’esilio,
la vostra linfa immortale.
Poesie nel cassetto e saltuario risveglio
Figli ignorati
di madre ignorata,
fiori invisibili
di un rovo
povero di linfa vitale,
che frutti non ha
pei mercati
e le sagre
di ogni paese.
Fiori non colti,
sul ramo
vanamente salutano il sole
senza gioia e tripudio di alcuno
che non sia chi gli ha dato la vita.
Presto, tra fogli ingialliti
spenti si adagiano
e attendono
vivi nel sonno,
per mesi, per anni d’oblio
che scocchi la diana
del loro risveglio;
che ancora trabocchi,
per breve stagione,
l’immemore gioia
del dono sperato,
ma senza speranza;
che ancora si vesta
di tutti i suoi fiori
per grazia ridesti,
la pianta malviva,
e d’altri s’ingemmi
che sboccian novelli:
ma alcuno non vede.
Perchè un sortilegio
li cela da sempre
agli occhi dei vivi:
creature di un mondo straniero,
contiguo e ignorato;
com’è dei fantasmi.
La sfinge
Contro un cielo torvo, di piombo
s’accende un intonaco giallo
per un sogghigno di sole.
Ma sulla ringhiera le rose
grevi di pioggia non ridono più.
Il verde s’è fatto cupo,
in raccolta attesa del vento
e dell’obliqua sferza dell’acqua.
Grondano lacrime intorno,
pure in me non è voglia di pianto:
forse di sonno
o di morte.
Se altrove ride la vita,
in quel ghigno
oggi è il solo suo riso per me.
Ora il volto del sole è un sfinge,
già suo simulacro remoto.
Caduta è la maschera amica
da questo soggiorno terreno.
Fu lusinga di arcane dolcezze,
è minaccia di giorni venturi.
Un messaggio in una bottiglia abbandonata nel mare
Se potessi chiuderla in una bottiglia
e gettarla nel mare
questa mia vita.
Questa mia vita,
evaporata, liofilizzata,
purificata
dalle miserie
(e sia pur solo
nell’astratto pensiero
delle mie vuote giornate
quelle sottratte all’assillo
di molestie e spaventi:
assilli ricorrenti
di quest’ultima via).
Chiuderla in una bottiglia
e abbandonarla nel mare,
perchè la ritrovi qualcuno
di quelli
che m’ignorarono in vita,
e sia raccolta la voce
finalmente
del mio muto destino.
La parola agli anziani
Qualcosa, dicono, che ti faccia
passare il tempo,
come se non corresse, il tempo
abbastanza veloce…
ma io dico: meglio il sonno
e i sonniferi,
per non sentirlo passare.
Passare il tempo?
forse come ai giorni
perduti del prodigo scialo,
quando non avverti
ancora la vertigine dei giri
che ti risucchia verso il tuo destino
ma guardi all’ore, ai giorni e alle stagioni
quasi dovessi in corsa sorvolare
sovra immobili plaghe,
perdute all’orizzonte senza fine.
Passare il tempo, ancorarsi alle cose
che ti propone il giorno
con immemore assillo quotidiano:
questo è quanto ti resta.
Nel carcere dei giorni
che implacabili corrono alla sera
non sono tuoi neppure i passatempi
del recluso che spera,
quando che sia, la fine
della tua mala sorte.
Se ce la fai, puoi trastullarti ancora
come ci si trastulla
nel braccio della morte.
(da Rina Pachioli, Una bottiglia abbandonata nel mare – A cura di Sergio Givone, con una nota di Paolo Rossi, il melangolo)
L’immagine: particolare della copertina della silloge di Rina Pachioli.
Marco Papasidero
(LucidaMente, anno III, n. 31, luglio 2008)