E’ difficile, in questi nostri tempi di valori declamati, predicati a destra e a manca, tuttavia frugalmente sperimentati anche dai più invasati sostenitori, disporsi alla lettura di un’opera narrativa senza la preoccupazione di incappare nella solita meschina operazione commerciale infarcita di sconcezze, descrizioni più o meno oscene, richiami a funzioni corporali che il buon senso relega, solitamente, all’area dei sevizi igienici.
Il tutto sostenuto da un lessico e da una costruzione sintattica – oltre che da un’ortografia inattendibile – che con la bellezza di una lingua, l’italiano, di per sé armonioso, dolce, efficace ed efficiente, se ben padroneggiato, non ha nulla a che vedere.
Eppure, nelle librerie, questi orrori dilagano, riempiendo le tasche di editori e sedicenti scrittori – ex punkettoni/frikkettoni ora teocon/”atei devoti”, ex attori, pseudocomici, ex (?) pornostar – di facili guadagni.
Una scrittura perfetta – Ci sono testi di questi novelli prosatori che sono finiti persino sulle antologie scolastiche delle scuole superiori – con grande gioia dei ragazzi che vedono, finalmente, legittimato il linguaggio scurrile -, nelle quali, invece, vengono a volte ignorati grandi scrittori come Ettore Masina, che, al contrario, modella la lingua come Michelangelo maneggiava linee e colori. E’ il primo pensiero che sorge già alle righe iniziali di Comprare un santo (ripubblicato da O.G.E.-Opera Graphiaria Electa, pp. 192, € 15,00; prima edizione edita da Camunia nel 1994), romanzo storico di Masina; davvero ti chiedi come sia possibile che le grandi case editrici pubblichino spazzatura e ignorino simili gioielli. Interessa ancora a qualcuno la cultura vera? Quella che, nel bene o nel male, trasmette contenuti, non vuoti deliri? Nel Codice Matritense del padre Bernardino de Sahagùn, che raccoglie testi aztechi, c’è scritto: “Coloro che stanno leggendo / coloro che trasmettono il sapere / coloro che forgiano i codici / coloro che hanno potere sulla parola scritta e sulla pittura / essi ci guidano / ci insegnano il giusto cammino”. Forse il motivo è che, affinché il modello economico che il mondo pare aver abbracciato come “cosa buona e giusta” funzioni senza “intoppi”, è preferibile non dare spazio e parola a chi indica un diverso e appunto “giusto cammino”…
Tra “santi” e uomini puri – Comprare un santo è un gioiello; per l’accuratezza stilistica, innanzitutto, che dà piacere, come il suono contento d’acqua fresca di fonte. E’ gioioso, Masina, arguto, lieve e gradevole anche quando si addentra in descrizioni che – in altre mani – avrebbero potuto diventare torbide e grevi. Pare di sentirlo raccontare, con quel suo modo tenero, un po’ aristocratico, in apparenza distaccato, ma poi, improvvisamente, intenso, sferzante e sarcastico, dei poveri cittadini di Marogne discesi dal lago d’Iseo a Roma, nel 1730, per comprare lo scheletro di un santo. E il romanzo è strutturato nello stile semplice della narrazione d’un cantastorie, senza artifizi o difficili salti temporali. I personaggi si levano chiari, in descrizioni che li creano visivamente presenti, con definizioni psicologiche tanto efficaci da renderli attuali e da coinvolgere emotivamente il lettore.
Dom Ortensio da Breno – Ci si affeziona subito al monaco benedettino dom Ortensio da Breno, alla sua ingenuità che verrà sconvolta dallo svelamento dell’immondizia che pervade le strade di Roma e la Curia romana. Dom Ortensio dal “cuore di ricotta”, che fa un’analisi dei problemi dei sacerdoti quanto mai moderna: “Non era solo la spina del sesso, come crede la gente volgare, a lacerare lo spirito di quei miseri: era più spesso la conseguenza di un’elezione che rende diversi, rinserra in una gabbia, tra le cui sbarre filtra lo sguardo del prigioniero a contemplare l’umanità alla quale più non appartiene, filtra fra sbarra e sbarra lo sguardo curioso della gente, a sbirciare il comportamento di quello strano animale che pare uomo e non è”. Inoltre, soprattutto dopo le esternazioni di papa Ratzinger da “Ratisbona tropicale” (come lo stesso Masina le ha definite) sulla colonizzazione americana “senza spargimento di sangue”, è attualissima la figura del gesuita padre Miguel García, sconvolto dall’evidente scandalo della riduzione in schiavitù dei pretos, i neri.
I gesuiti e la tratta degli schiavi – Scrive Masina a tal proposito: “E aveva raccontato padre García che un giorno di tanti anni prima, mentre un carico di schiavi veniva sbarcato da una nave, egli aveva visto il dolce Cristo camminare in catene in mezzo a loro: “Non potevo sbagliarmi: fra quei corpi nerissimi e ignudi spiccava la sua veste rossa, il chiaro volto. Io gli sono corso accanto, ho cercato i suoi polsi per liberarli dalle catene… Lui mi ha sorriso e mi ha detto: Miguel, che fai? Non sai che io debbo rimanere con loro, che ogni cosa che è fatta ai poveri è a me che viene fatta?”. Un sibilo di frusta, un urlo; e la fila aveva ripreso ad avanzare strascicando i piedi, a testa bassa, gli occhi chiusi quasi rifiutando di contemplare il luogo della deportazione. Padre García s’era subito accorto che quella figura l’aveva vista lui solo, vista e toccata, come ora confidava al nuovo amico. La gente intorno, infatti, era rimasta immobile e indifferente ai margini del lungo nero corteo. E lui, per non sembrare un folle, aveva taciuto a tutti la sua visione. Ma non ciò che aveva, in quell’incontro, compreso: la certa, certissima ereticità della schiavitù. E tuttavia anche qui s’era scoperto solo. Nelle strade di Salvador, la ricca città degli zuccherieri, fastosa capitale della colonia brasiliana, i conventi esibivano facciate sontuose in cui, sopra le ornate finestre delle celle, si aprivano i finestrini degli schiavi personali dei religiosi; e sembrava normalissima consuetudine. Peggio ancora: nella casa del suo Ordine padre Garc%EDa aveva trovato antiche carte dalle quali risultava che i gesuiti evangelizzatori dell’Africa avevano talvolta fornito schiavi ai confratelli brasiliani: quasi fossero bestie. E proprio bestie quei poveri erano infatti considerati, come documentano gli atti di un Capitolo celebrato a Salvador nel 1568: un paragrafo dei quali era intitolato De vacis et servis, schiavi e animali sullo stesso piano”.
Corruzione e ipocrisia – Un romanzo storico, ambientato nella Roma pontificia del Settecento, città estremamente corrotta, quella che già san Bonaventura aveva paragonato alla meretrice dell’Apocalisse, precedendo Lutero di tre secoli, e che Dante aveva, in buona parte, mandato all’inferno: innanzi tutto diversi papi, poi i cardinali, confinati, nudi come vermi, nel quarto cerchio, costretti a spingere per l’eternità grossi massi simbolo delle ricchezze, contro massi simili spinti da altri avidi individui. La Roma della Curia e dei bordelli – e una delle ragioni per un così alto numero di prostitute era proprio la presenza di un alto numero di celibi, sia pure consacrati – è il palcoscenico in cui si muove Obizio Slanzi, segretario comunale, incaricato con dom Ortensio dalla comunità di Marogne di procurarsi lo scheletro completo di un santo che desse lustro e possibilità di miracoli al loro paese.
Papa Benedetto… – Guarda caso, anche l’allora pontefice si chiamava Benedetto. Tredicesimo, quello. Papa Francesco Orsini, Benedetto XIII, viene descritto, nel romanzo, come un asceta, con una sola macchia: la “predilezione” per un bambino (anche qui si rinvengono analogie con alcune problematiche del presente, quali lo scandalo delle pratiche pedofile diffuse nel clero), figlio del suo barbiere, che si era allevato e tenuto accanto per tutta la vita, prima obbligandolo a entrare in seminario, poi promuovendolo, per gradi, fino alla porpora cardinalizia. Una serpe in seno, che, approfittando della propria posizione, aveva rubato a più non posso, accrescendo l’odio della popolazione contro la Curia. Un papa che veniva dopo Innocenzo XIII e Clemente XI, quest’ultimo il protagonista di uno dei più grandi “errori” della Chiesa cattolica: la condanna dei metodi di “inculturazione” usati dai missionari in Cina. Anche questo fatto attualissimo, visto il lavoro di restaurazione che la Chiesa ha portato avanti contro la teologia della liberazione in America latina.
Clemente XI e la Cina – Clemente XI, per condurre un’inchiesta sui gesuiti, aveva inviato a Pechino, come proprio rappresentante personale, un vescovo, il quale, molto scioccamente, aveva condannato in pubblico come idolatrie i riti locali riguardanti gli antenati. Dopo alterne vicende, il papa approvò tutti i decreti dell’Inquisizione contro i gesuiti: nell’anno 1715 tutti i missionari della Cina dovevano giurare di detestare i riti cinesi e promettere di non tollerarli mai. Questa “giusta” intolleranza, secondo il papa, avrebbe sradicato le male erbe e reso il suolo cinese più prolifico per il Cristianesimo. La Chiesa era Roma, e, anche a Pechino, doveva rispondere non tanto al Vangelo, quanto a Roma stessa. I risultati di tale “politica” li abbiamo sotto gli occhi.
Ora come allora: tutto si perpetua – Tuttavia, il metodo pare lo stesso anche oggi, e più che mai rinvigorito. Anche col sostegno di quegli uomini di letteratura e giornalisti teocon/neocon/”atei devoti” e chi più ne ha più ne metta, sempre pronti a distendersi a terra e genuflettersi quando sentono odore di denaro. Ritorna, presente e reale, il pensiero di dom Ortensio al disvelamento delle sordidezze e dell’ipocrisia della Roma settecentesca: “Che cosa aveva visto al di là di pietre sacre alla storia della Chiesa e del genio umano? Torvi mendicanti e rozzi contadini che baciavano la mano a signori boriosi, i quali la baciavano a dame impudiche, le quali la baciavano a tronfi cardinali che la baciavano al Papa… Baci di Giuda, tanti Giuda e nessun Cristo”. Entra nell’intimo dei personaggi, Masina, con lucidità e oggettività, ma anche con grande tenerezza, con la compassione di chi si riconosce innanzi tutto peccatore, nudo e indifeso davanti ai mali del mondo. Nudo davanti al suo Creatore. Ci dà così lezioni di misericordia, di umiltà vera, ma ci dà altresì lezioni su cos’è una credibile formazione intellettuale, a fronte di tutta la pacchianeria che ci viene propinata come cultura.
L’immagine: la copertina del libro.
Normanna Albertini
(LucidaMente, anno III, n. 26, febbraio 2008)