Alcuni inquietanti brani da “Decomposizione di Dio. Un racconto e cento apologhi gnostici tra Kafka e Cioran” (inEdition editrice)
Al di là del notevole spessore artistico (l’architettura severa e la ricchezza delle suggestioni simboliche), filosofico (le dilatazioni conoscitive, le seducenti sfide esistenziali, la realtà vista da occhi senza palpebre, gli abissi cosmici), narrativo (le geometrie e le deviazioni imprevedibili) e stilistico (una scrittura ovattata e ricamata; una prosa raffinata e chimerica, quasi un florilegio di sete; un ritmo avvolgente e ipnotizzante), il nuovo libro di Rino Tripodi, Decomposizione di Dio. Un racconto e cento apologhi gnostici tra Kafka e Cioran (Introduzione di Raffaele Riccio, pp. 104, € 10,00; anche in versione ebook, presso Amazon, a soli € 1,70), pubblicato presso la nuova collana di letteratura Nerissima della inEdition editrice/Collane di LucidaMente, si inoltra lungo i tenebrosi ed estremi sentieri della riflessione filosofica sul dolore e sulla presenza del Male nell’universo, risalendo passo dopo passo alla creazione e al Dio-demiurgo.
In tal modo gli iniziali scricchiolii della placidità del mondo, gli allarmanti indizi delle ombre, gli accartocciamenti delle increspature, si ampliano in trasalimenti e spaesamenti ossessionanti, in territori di deriva e di orrore, in voragini non segnate da alcuna sentinella, lungo i quali viene proclamata una metafisica vertiginosa, minacciosa e crudele: il buio accerchia l’esistenza e la strazia, rendendo fioca e comunque impercettibile la voce umana.
Dell’opera, anticipiamo il capitoletto XXVIII del racconto d’apertura, Il pellegrinaggio ad Atar’sh, e tre apologhi: due inseriti appunto all’interno della prima storia – autentici racconti dentro il racconto – e, infine, L’intrusione del male. Come si vedrà, un malinconico stupore, intriso a metafisici, inquietanti trasalimenti, percorre i brani riportati.
L’arrivo al tempio
Siamo alfine giunti, noi pochi superstiti di Soln, al santuario.
L’ho visto di lontano, nel deserto, e dapprima ho ipotizzato che si trattasse di un altro dei soliti miraggi. Mi è apparso come una costruzione piatta, rettangolare, lunghissima, nera, quasi schiacciata in terra. Ho pensato che fosse solo un’impressione cagionata dalla lontananza e dal fatto che io ero sdraiato sulla barella. E se fosse stato un ennesimo effetto delle febbri?
Più volte, avvicinandoci, mi sono levato dal giaciglio: non era un incubo, non era un miraggio, non era un effetto della distanza. Il tempio, più ci approssimavamo a esso, più si mostrava per quello che era: un enorme edificio nero, perso nel deserto, un parallelepipedo la cui facciata, lunga più di cento piedi, misurava quattro volte il lato minore.
Il nero che colora tutto l’edificio è interrotto unicamente da qualche fregio dorato; non si capisce bene se si tratta soltanto di decorazioni, oppure di versetti in una lingua sconosciuta: francamente, però, i caratteri sono inquietanti per la loro totale alterità rispetto ai segni conosciuti.
Porticine regolarmente distanziate l’una dall’altra lungo tutta la costruzione immettono all’interno del luogo sacro. Ma ciò che maggiormente sconcerta e sconvolge è l’altezza dell’edificio: appena due metri, con le entrate ancora più basse. Gli uomini più alti sono costretti a chinarsi per entrare, e, pur tuttavia, anche quelli di statura normale o piccola si piegano: forse chi ha congegnato tale edificio lo ha fatto per far compiere al visitatore un iniziale atto di umiltà? Forse questo fa parte del percorso spirituale?
È comunque un luogo tristissimo. Non si ode alcun canto, alcun inno religioso, e nemmeno alcun rumore, forse perché la sabbia, che, copiosa – e di colore nerastro -, ricopre il pavimento del tempio, attutisce tutto. Il nero dell’esterno, senza più la luce accecante del sole, si prolunga e si espande all’interno. Solo qualche raro lume o candela lotta con l’oscurità invincibile della vasta superficie. Perfino le pareti sono nere.
Non so se la mia febbre e la mia fine imminente mi facciano percepire come ancora più fosco l’interno del santuario. Certo è per me enorme la fatica di stendere queste ultime annotazioni.
[…]
La città dell’attesa
Un uomo, senza sapere il perché, finisce in una cittadina.
Spaesato, si reca nel primo albergo che incontra e vi trova alloggio. Tuttavia, l’albergatore gli sussurra: “Guardi, comunque, che non è questo il suo posto”.
La sera si sdraia su una poltrona della sua stanza. Non ricorda niente di sé, non sa chi sia, a dire il vero non ricorda neanche il proprio nome. Si guarda attorno senza muoversi. Da una radio fuoriescono voci che non capisce. Dalla finestra intravede le luci della città: insegne, veicoli… Resta immobile: sa che ogni intervento sulla realtà, su quella realtà, può solo peggiorare la situazione. Tutto – i suoni della radio, l’esterno, i mobili della stanza – gli appaiono estranei, ed egli si sente estraneo a loro. Questa assoluta alienazione dai luoghi, dalle cose, dal tempo, tuttavia, invece di turbarlo, lo rende più tranquillo.
L’indomani se ne va un po’ in giro, per cercare di ricordare qualcosa, di capire come è finito in quella situazione.
Le persone che incontra sono garbate, ma un po’ imbarazzate, e gli dicono: “Lei non dovrebbe stare qui”.
La sera, torna a chiudersi nella sua camera d’albergo e pensa: “Il mondo è fuori, non può più farmi del male. Quanto potrà durare questa condizione? Forse per sempre: nessuno mi cercherà mai. Forse questa stanza è tutto ciò che resta del mondo e io sono l’unico superstite, l’unico sopravvissuto. Forse, piuttosto, devo ancora nascere, e questo è una sorta di limbo. O forse sono morto anch’io e…”.
Allora ricorda: era morto prima di giungere in quel posto.
Quella, invece, è una città di vivi, talmente benevoli e abituati ai fantasmi, che attendono sempre con pazienza che essi ricordino chi sono. Poi, le anime dei morti, scoperta la loro reale condizione, spariscono. E così fa anche quell’uomo.
[…]
L’anacoreta e gli uomini dei ghiacci eterni
Una carovana si avventura nel deserto.
Il suo capo è convinto di star seguendo il giusto itinerario per raggiungere la meta: una splendida oasi ricchissima di acque fresche, entro le quali tutti potranno immergersi, togliendosi di dosso la sottile sabbia del deserto, simile a polvere.
Ma passano i giorni e l’agognata meta nemmeno si intravede.
Incontrano allora un vecchio eremita su un cammello, e gli chiedono se quella che stanno percorrendo sia la strada giusta.
Risponde loro l’anacoreta: “Figlioli, dove state andando? State sbagliando tutto! La vostra vera destinazione non è il caldo deserto. Non avete scrutato la reale natura delle vostre anime: voi non siete beduini, ma uomini dei ghiacci eterni. Recatevi sulla costa, vendete tutto, comprate una nave e viaggiate sempre verso nord. Alfine raggiungerete la vostra isola”.
E così fanno.
Si imbarcano e si dirigono a nord, attraverso le acque blu dell’oceano. Dopo giorni e giorni di navigazione, cominciano a distinguere una terra, candidissima per le nevi e i ghiacci che si spingono dal suo interno fino al mare.
Attraccano, sbarcano e vedono decine di donne bionde, alte e bellissime, che li accolgono festanti. I viaggiatori si rallegrano.
Esse, allora, mostrano loro uno splendido palazzo azzurro incastonato tra i ghiacci e rivelano: “Ora siete arrivati a casa. Quello è il mausoleo per i vostri cadaveri”.
[…]
L’intrusione del Male
Alle origini Dio era tutto e occupava tutto.
Non esisteva né spazio, né tempo.
A un certo punto, egli decise di creare l’universo.
Ora, per dare origine al mondo, doveva permettere allo spazio e al tempo di esistere e, pertanto, con atto di autolimitazione, si contrasse.
Ma lo spazio, rimasto momentaneamente vuoto, fu per un attimo buio e vi irruppero forze malvagie.
Di conseguenza, quando la Luce della creazione proruppe, invece di diffondersi uniformemente per tutto l’universo, si frantumò in faville, e potenti punti neri si mescolarono a essa e macchiarono ogni cosa successiva. Così luce e buio, bene e male, cominciarono a competere per il dominio del mondo. La divina Armonia era infranta per sempre.
Ecco perché esiste il Male1.
Tuttavia, al tempo stesso, le scintille di Luce divina attraversarono qua e là il buio, sicché bene e male si mescolarono talmente che non esiste male che non contenga un elemento di bene, come non esiste bene totalmente esente dal male.
1 La visione tracciata nel presente apologo è simile a quella elaborata da Isacco (Jzchaq) Luria (1534-1572), importante personalità della Qabbalah ebraica della scuola di Safed.
(da Decomposizione di Dio. Un racconto e cento apologhi gnostici tra Kafka e Cioran di Rino Tripodi, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: particolare de Il tempio di Giunone ad Agrigento (olio su tela, 1828-30, Museum am Ostwall, Dortmund) di Caspar David Friedrich (Greifswald, 1774 – Dresda, 1840).
Claudia Mancuso
(LucidaMente, anno II, n. 23, novembre 2007)
La lettura di Decomposizione di Dio offre l’immagine di una sorta di atlante, di tante regioni del sogno e dell’intelletto, a ciascuna delle quali corrisponde una forma letteraria (il racconto, l’apologo, il racconto nel racconto,…) e un diverso destino della ricerca del divino. Che sia maligno, inesistente o disinteressato, che si sveli in veste di fanciullo, di cadavere o di ghigno cosmico, esso opprime e allo stesso tempo anima la curiosa, incontenibile, umana volontà di sapere. E quel che questa conquista sono un’idea e un’immagine di Dio sempre più adeguate al “macello di vita” dal quale sembrava tradizionalmente così lontano. La conseguenza è per tanti ignari, come lo sono i protagonisti del libro, l’improvvisa immersione nel caldo di neri deserti, nelle scure acque di mari ignoti, nel freddo dello spazio stellato e in altri habitat in cui respirare e toccare con mano l’inesorabilità della perdita del dio. Viaggi, miraggi, sfide, riflessioni, e uno strano sentire; frammenti preziosi sfuggiti dal corpo frantumato di qualcuno che ci aveva incantato.