Non c’è garanzia. I produttori non assicurano nulla su tenuta, durata, prestazioni, neppure degli accessori. Nessun reclamo, per quanto accompagnato da estensivo corredo di prove e suffragato da numerose testimonianze, verrà accolto. I rivenditori declinano ogni responsabilità, precedente, contemporanea o successiva alla consegna. Il prodotto non gode di alcuna copertura assicurativa; eventuali graffi, abrasioni, fratture, piaghe da decubito, infezioni, ruggine, infiltrazioni, cedimenti strutturali non danno diritto ad alcun risarcimento, né in denaro né di altra natura. Casi di incuria, manomissione o dolo non verranno perseguiti a termini di legge; per contro, non sono ammesse restituzioni o sostituzioni per difetti di fabbricazione o guasti spontanei. Non si accettano permute. I produttori consigliano di seguire i consigli di utilizzo forniti nel pratico foglio illustrativo, e raccomandano la lettura del manuale d’istruzioni, originariamente stampato in oltre quattromila lingue e da tempo non più disponibile; ma osservano che da questo non conseguirà necessariamente un funzionamento più stabile o più efficace o migliore da qualsivoglia punto di vista. Esortano a conservare la bolla di consegna e la scheda identificativa del prodotto, per quanto non siano di alcuna utilità, oltre a dimostrare che il medesimo non è detenuto abusivamente. Si complimentano infine per la scelta, se mai ne sia stata fatta una. Sarebbe infatti impossibile, ma piccole deroghe, più formali che sostanziali, non intaccano l’integrità del complesso, come potrebbero? Per quanto imprevedibili, allettanti spiragli di porte socchiuse, pertugi di serrature la cui chiave si è perduta per sempre, ferite mal rimarginate, cuciture lasche della tenda celeste, smagliature che ammiccano, e in trasparenza si indovina un chiarore, uno sfondo che non puoi toccare, ma è lì, quasi evidente.
L’apparizione non passò inosservata. Eppure, come ogni mattina, il grande spiazzo era affollato di uomini d’affari che andavano e venivano, accompagnati da un deferente stuolo di segretarie, assistenti, ambasciatori, diaconi. Alcuni conducevano dietro di sé veri e propri cortei, folti di scimmie ammaestrate, buffoni, sbandieratori e saltimbanchi; altri passavano cupi, senza neppure alzare gli occhi, al riparo di monumentali guardie del corpo.
Alle loro spalle l’edificio spiccava, faraonico, contro il pallore del cielo. Migliaia di ritagli di vetro delle forme e misure più diverse erano i suoi occhi noncuranti, occhi che dominavano la pianura, sorvegliavano i traffici e gli scambi, davano il loro tacito assenso agli accordi, ai soprusi, alle guerre lontane. Lungo i muri si materializzavano scene animate e iscrizioni in caratteri cubitali: massime di buona condotta, sani principi, citazioni di immobile e acquiescente antichità si alternavano a brevi esibizioni di pomate esilaranti, pillole per la serena evacuazione, digestivi cerebrali, ultraprotesi contro l’invecchiamento cutaneo.
Nessuno seppe dire, in seguito, se fosse scesa da uno di quegli autogetti che le grandi società riservano ai dirigenti più importanti, con autista, servitù laureata, sauna, sarcofago chemiorilassante, gusci velocissimi che non conoscono ingorghi, incidenti, piogge, foschia, e sono fra i più ambiti privilegi delle aristocrazie aziendali. Forse la videro quando il mezzo si era già dileguato, forse aveva viaggiato con un trasporto personale, più discreto, per non destare curiosità. Chi l’avesse vista non dubitava della sua elevata posizione, benché non si notassero decorazioni, fasce o altre insegne del grado.
Portava un abito grigio a righe di foggia maschile, che vestiva con ambigua eleganza il corpo magro e nervoso; le scarpe scure, di raffinata fattura, risuonavano secche e precise sul porfido dello spiazzo. I capelli biondi erano raccolti in una treccia che si avvolgeva sul capo, fermata da forcine d’oro alle cui estremità oscillavano piccoli teschi eburnei. Una ciocca, sfuggita all’intreccio, scendeva libera a lato del viso, e questa ciocca era bianca. Il volto, serico e teso, del tutto privo di trucco, dimostrava meno di vent’anni; ma l’incisione degli zigomi, la piega severa che stringeva le labbra, gli occhi chiari come lame parlavano di giochi che prendono molte vite.
Con la mano sinistra reggeva una borsa nocchiuta e lisa, reduce di mille battaglie; pelle di capra, secondo alcuni, che giuravano di averne sentito l’odore acre, come se la concia e l’uso non fossero riusciti a cancellare il sentore di selvatico. Borchie correvano lungo i bordi, catenelle e lacci serravano le tasche esterne, e un numero imprecisato di ciondoli bizzarri, medaglie, piume, denti di belva erano cuciti ai lembi, pendevano legati ai brandelli degli strappi, dondolavano al ritmo del passo.
Svanì, infine, oltre la parata delle porte a vetri. Gli ulivi millenari cessano di stormire, le spighe si acquietano. Non è successo niente. Non c’è niente da vedere. Circolare, forza, circolare.
Oggi si riunirà il consiglio di amministrazione. Chi lo dice? Nessuno. E’ un presagio che gira per i corridoi, bussa alle porte dei gabinetti, soffia nelle orecchie delle segretarie fingendo di dire qualcosa e farfuglia a bella posta, poi ci sono i bene informati che già dissertano di ordini del giorno, un sottofondo salmodiante appena percepibile tra gli ottoni e le grancasse della sinfonia societaria. L’attesa, dietro l’apparenza distratta degli uscieri, malgrado gli sbadigli senza ritegno, è febbrile, si è propagata in fretta tra gli uffici, ha preso possesso delle rotative e degli impianti di aerazione, fin giù negli scantinati. Si mormora di delitti e di punizioni. Delitti commessi lassù, fra i grandi, gli irraggiungibili, che il consiglio è chiamato a giudicare. Storie per ingannare il tempo? Futilità diffuse ad arte dai soliti mestatori, fin troppo abili ad alimentare il disfattismo, la disaffezione, il malanimo? Perché la sola visibile certezza è lo spiazzo dove si incrociano atomi carichi di clientele, contratti e azionariato, è l’evidenza dei grafici sempre svettanti, la cavalcata dei titoli, il ticchettio degli orologi ai piani alti, le firme che regolano quantità, stabiliscono prezzi, conferiscono valore.
Si mormora del direttore generale che la squadra di pulizie l’abbia trovato questa mattina, assiso sul suo trono di pelle nera e lucenti lamine metalliche, la testa appena reclinata da un lato, la calotta d’argento che copre la tonsura, segno della dignità dirigenziale, appena scostata dal colpo che l’aveva inchiodato, ieratico eppure sorridente di un duplice sorriso, quello accomodante della bocca e quello osceno della ferita. Il pesante fermacarte di cristallo a forma di civetta era stato accuratamente ripulito e rimesso sulla scrivania; solo uno spigolo scheggiato testimoniava l’accaduto.
Si insinua che l’assassino, amante e braccio armato della signora moglie dell’ucciso, si sia improvvisato carnefice su istigazione di lei, che intendeva vendicare la messa in liquidazione della sua compagnia prediletta, una graziosa società di intermediazione che aveva cresciuto e svezzato con materno trasporto.
Infine l’ancora più incredibile epilogo del dramma, diffuso con dovizia di varianti da lustrascarpe e facchini, non senza che avventurosi e probabilmente arbitrari rammendi abbiano colmato alla meglio le lacune: che entrambi, l’amante e la signora, siano stati rinvenuti del tutto privi di calore e respiro, massacrati l’uno sull’altro dal signor figlio di lei con un affilato tagliacarte.
Improvvidamente rientrato dal collegio d’oltremare dove s’impratichiva in vacanze di capitali, cosmetica dei bilanci e altre scienze applicate, il giovane di belle speranze si era oltremodo irritato per l’omicidio del padre, che rischiava di sottrargli molti appannaggi e opportunità di carriera. O almeno, così la raccontano nelle cucine, tra scongiuri e invocazioni ai santi patrimoni.
Altri, soprattutto gli inservienti lavandai, fantasticano di incesti dovuti ai noti e non infrequenti disguidi dell’ufficio anagrafe; di parricidi annunciati, inconsapevolmente commessi e infine svelati a reti unificate; alla strage compiuta da cinquanta agenti di cambio sugli sventurati che le avevano sposate per puro disinteresse.
Ma tutto, in questa tarda mattinata, è così confuso, si dubita volentieri, quasi con sollievo, per tenere lontani i mastini. Si accettano le contraddizioni senza troppo discutere, come porte aperte da cui fuggire.
La sala circolare dove si tiene il consiglio è il vanto della corporazione dirigenziale, la gloria dei piani alti, il mito televisivo, altrimenti immaginario delle moltitudini.
Alle pareti grandi affreschi raffiguranti scene di storia sacra: il conio del primo mirocredito d’argento, nell’umile fucina oggi visitata da migliaia di pellegrini reverenti; la carica dei burocrati a cavallo, alla cui testa si vede brillare la stilografica del primo amministratore delegato, durante la battaglia decisiva per il monopolio della torba; la strage dei consulenti globali, caduti nel coraggioso tentativo di evangelizzare l’allora selvaggio settentrione; l’invenzione miracolosa dello sviluppo progressivo permanente, che contrappone, sulla destra, l’espressione saggia e lungimirante del dodicesimo direttore commerciale, fautore del progetto, alla meraviglia bambinesca di una torma di increduli, ammassati sulla sinistra, che indicano con l’atavico terrore dei primitivi le complicate formule ecopolitiche vergate sulla lavagna che domina la scena.
Anche il grande tavolo al centro è circolare; nove sono gli scranni dirigenziali, cui si aggiunge, più grande e fastoso, quello riservato all’amministratore delegato, che è destinato a rimanere vuoto. Da generazioni infatti la carica non viene conferita a persona vivente, ma al più meritevole tra i dirigenti trapassati, in modo che possano vegliare e consigliare con avvedutezza ancora maggiore, dal momento che sfogliano non soltanto i listini di quaggiù ma anche quelli di là.
Sospesa al di sopra del tavolo, una robusta struttura sorregge una corona di schermi, su cui scorrono i continui aggiornamenti delle quotazioni, espressi volta a volta da nude cifre, barre, torte, linee dentate.
E’ quasi mezzogiorno quando le nove porte della sala si spalancano, e i sommi burocrati, quattro uomini e cinque donne, si dirigono ai loro scranni. I vestiti cerimoniali sono impreziositi da ricami d’argento lungo le maniche e sui baveri delle giacche, le camicie hanno bottoni d’argento, uno dei quali ritualmente strappato in memoria della crisi dei papaveri, quando, in seguito al crollo dell’economia virtuale, il mirocredito scese ai minimi storici; sul petto e le spalle sono appuntate placche d’argento con i principali marchi societari.
“Procediamo. L’ordine del giorno?”
“Il consiglio di amministrazione si riunisce oggi in sessione giudiziale, con l’autorità e il potere di raddrizzare torti, dirimere liti, sanare guasti, imporre il rispetto di leggi, norme e regolamenti, affinché sviluppo e profitto procedano liberi e senza ostacoli con piena soddisfazione di tutti.”
“Si faccia l’elenco dei capi d’imputazione.”
“Il calo dei titoli preterintenzionali. Il fallimento di due nostre consociate del settore biochimico. La vendita sottocosto di quindicimila tonnellate di rifiuti alimentari. L’omicidio del nostro venerabile direttore generale. La conseguente morte della sua signora moglie e del nostro stimato responsabile delle risorse umane, amante di lei.” “L’imputato?”
“Ho qui la sua scheda personale. Leggo?”
“Solo l’essenziale.”
“E’ alle nostre dipendenze da quindici anni. Nessuna nota di demerito. Nessuna nota di nessun genere. Svolge la mansione di lucidatore di maniglie.”
“Bene. Le garanzie?”
“Chiunque, senza discriminazione di sesso, razza, fede politica o religiosa, appartenenza a circoli sportivi o ricreativi o culturali, può, qualora in possesso di prove a discarico dell’imputato, presentarsi personalmente o inviare un messaggio elettronico autenticato entro i prossimi trenta secondi. Purché non sia risultato insolvente negli ultimi dieci anni a qualunque titolo e per qualunque somma, nel qual caso verrà egli stesso sottoposto a giudizio e la sua testimonianza a favore considerata nulla.”
“Sono passati i trenta secondi?”
“In questo momento.”
“Si proceda con la votazione.”
I presenti estraggono da un astuccio due biglie: la nera per la condanna, la bianca per l’assoluzione. A turno, ciascuno posa una delle biglie nell’apposito incavo davanti a sé, dove una lieve pendenza la condurrà nell’incavo più grande, al centro del grande tavolo.
“Colpevole.”
“Colpevole.”
“Colpevole.”
“Colpevole.”
Quattro biglie nere hanno già raggiunto l’incavo centrale. Non manca che la quinta per sbrigare la procedura, emettere il verdetto e ordinare l’esecuzione della condanna. Questione di un momento. Ma proprio mentre la quinta biglia nera viene deposta e inizia la sua lenta e inarrestabile discesa, una delle porte si socchiude, ed entra nella sala una giovane donna in grigio, con una borsa puzzolente e una ciocca bianca che scende lungo il viso sottile. Tutti sgranano gli occhi, impietriti per la sorpresa. La quinta biglia arriva a destinazione con un rumore secco che in quell’attonito silenzio pare echeggiare come una fucilata.
L’intrusa si avvicina al tavolo, conta le biglie, scrolla la testa, sbuffa. Il gesto, nella sostanza più sbarazzino che irrispettoso, desta tuttavia lo sdegno dei sommi, che riprendendosi dallo sbalordimento rompono in un coro dissonante.
“Ma cosa…”
“Ma chi…”
“Ma da dove…”
La donna alza le braccia, con fastidio.
“Per favore. Cerchiamo di non perdere tempo, lo dico per voi. In primo luogo, inutile chiamare. Non verrà nessuno. Poi, vedo dalle vostre facce che non avete idea del perché io sia qui. Quanta pazienza ci vuole, a volte. E io ne ho così poca.”
Una vecchia dalla pelle di pesca, una voluminosa massa di riccioli neri dai riflessi violetti, la giacca tesa a racchiudere le esclusive plasmosfere pulsanti, scatta in piedi, rabbiosa. “Vattene immediatamente, ragazzina! Cosa credi, che stiamo giocando? Lo sai chi siamo? Lo sai? Ne hai mai sentito parlare, dal tuo tugurio di ufficio in periferia? Non voglio sentire altro, quella è la porta. Va’ via, prima che ti prenda a schiaffi.”
La donna non replica, solo impallidisce leggermente. Per un attimo, la mano stringe con forza la maniglia della borsa. “Va bene. A questo punto potrei andarmene davvero, e addio. Ma sono qui. Andrò fino in fondo. Ho sempre cercato di essere discreta, ma non mi lasciate scelta, teste di legno che non siete altro.”
Tende la mano, il palmo rivolto in avanti. Il gesto fa brillare gli spessi anelli d’oro, su cui sono sbalzati serpenti, fregi geometrici, arabeschi sinuosi. I membri del consiglio si guardano l’un l’altro, eccitati e inquieti. E vedono. Vedono sugli schermi le quotazioni crollare, i grafici invertire la rotta, interrompere la marcia trionfale e precipitare irrimediabilmente, migliaia di miliardi di mirocrediti svanire senza tracce, economie e mercati spazzati via da una marea devastatrice, che infine, ritirandosi, non lascia altro che il liscio e sterile nulla. Si alzano, montano in piedi sugli scranni, piangendo cercano di abbracciare gli schermi, testimoni impassibili di un potere già quasi cancellato. Poi anche gli schermi si spengono. Allora ricadono seduti, la testa fra le mani, chi in preda a singulti isterici, chi fissando il vuoto, gli occhi senza sentimento, chi nel vano tentativo di mettersi in contatto con avvocati, banchieri, fiduciari, soci sostenitori.
Ma è stato solo un momento. I collegamenti ora sono ripristinati, le informazioni fluiscono. Le transazioni riprendono, dapprima a ritmo rallentato, poi sempre più vicine alla consueta frenesia. L’immenso corpo valutario, dopo il breve intervallo di un coma che pareva senza speranza, esce dall’agonia, respira quasi normalmente, il polso batte con regolarità. Le merci si comprano, le anime si vendono, il denaro circola, riscattato, almeno momentaneamente, della sua nuda consistenza cartacea. L’inganno della filigrana, delle firme, l’ipnosi delle cifre torna a funzionare.
La donna in grigio passa in rassegna tutte quelle facce disfatte, alcune ancora rigate di lacrime. Sospira, rassegnata.
“Se solo vi vedeste. Se solo vi rendeste conto di quanto siate noiosi e prevedibili. Con le vostre manovre, gli intrallazzi, le carte truccate, gli imbrogli. Qualcuno vi ha mai chiesto di essere onesti? Non credo. Eravate liberi. Vi abbiamo insegnato a giocare, voi nemmeno ve lo ricordate. Regole e infrazioni, essere leali o tradire, scegliere l’onore o ricorrere al raggiro; che importa? Non siete mai stati felici, in sogno forse, ma eravate vivi. E ora? Ve ne state seduti, a invecchiare e a tramare per il prezzo della lattuga, travestiti da spaventapasseri di lusso, cullandovi in questi rituali pretenziosi e strampalati, con l’illusione di incutere rispetto. Vorreste essere importanti, e non vi riesce neppure di essere ridicoli. Credetemi, se fosse per noi ce ne saremmo già andati da tempo; ma non dobbiamo, non possiamo. E’ facile distrarsi, abbassare le palpebre e prender sonno; intanto, nella vostra scempiaggine, rischiate di compromettere qualcosa di più dei vostri affari di bottegai. Vi lascerò concludere la votazione; ma ricordate che tengo molto a quest’uomo, questo lucidatore di maniglie a cui volete far scontare le vostre sciocchezze.”
Il consiglio, annichilito, vota. Una dopo l’altra, quattro biglie bianche si uniscono alle cinque nere già raccolte nell’incavo. La giovane depone la borsa sul tavolo, rovista con energia fino a profondità insondabili, scioglie lacci, apre lucchetti. Finalmente ne cava una biglia bianca.
“Non avete niente in contrario se partecipo, vero? Non ne ho diritto? No, avete ragione. Non quel diritto che vi arrogate in virtù dei coperchi di latta che portate con tanta pompa sopra le vostre zucche vuote. Ma devo, già questo basterebbe. E poi, mi è sempre piaciuto giocare a biglie. Che volete, siamo bambini. Magari lo foste anche voi.”
E con un guizzo improvviso lancia la biglia, che piomba nell’incavo, spacca in mezzo una delle biglie nere, ne scheggia altre due, le altre schizzano via come proiettili. I membri del consiglio si sono rifugiati d’istinto dietro gli scranni, carponi, le calotte d’argento rotolano a terra tintinnando, le tonsure luccicano di sudore.
“Ora le sorti sono pari. Secondo la legge questa è un’assoluzione, giusto? Mi auguro di non dover tornare per la ratifica, sapete com’è. Bene, ho finito, me ne torno a casa. Buon pomeriggio.”
Il rumore dei passi sfuma lentamente, di là dalla porta aperta.
Tra le storie del nuovo mondo, una delle più popolari riguarda l’uomo che costruì il primo leviscafo. Non volle brevettare la sua rivoluzionaria invenzione. Non aprì fabbriche per la produzione in serie, né società per organizzarne lo sfruttamento commerciale. Insegnò come costruirlo a chiunque lo desiderasse. Una notte senza luna i leviscafi si alzarono a migliaia, decine di migliaia, e abbandonarono il paese per sempre. Il geniale inventore guidò la flotta attraverso le insidie della spirale galattica, fin dove le nubi di polvere si assottigliano, il cielo è sgombro, non c’è pericolo di secche. Laggiù le alte scogliere lasciano un varco, oltrepassato il quale si stendono lembi di terra buoni per piantare il grano, colline e boschi e montagne. E raccontano che quest’uomo, cui il nuovo mondo deve la sua fondazione, avesse trascorso quindici anni a lucidare maniglie, nel dedalo degli uffici centrali.
L’immagine: la copertina di NeXT Iterazione 05, bollettino di cultura connettivista.
Umberto Pace
(LucidaMente, anno II, n. 8 EXTRA, supplemento al n. 22, 15 ottobre 2007)