“Reggina 1999-2008. Dieci anni all’ultimo respiro” (Città del Sole Edizioni):delizie e dolori da serie A
Il nostro libro Reggina 1999-2008. Dieci anni all’ultimo respiro (Presentazione di Enzo Laganà, Città del Sole Edizioni, pp. 140, € 10,00) non intende essere soltanto, come evidenziato dal titolo, la storia – corredata da un’accurata e ponderosa serie di cronache, risultati, classifiche, descrizioni di gol, statistiche e curiosità – di un decennio di una squadra di calcio meridionale che costituisce un piccolo “caso” nel panorama del campionato di serie A. In molte parti del libro, infatti, ritenendo il calcio un evento socioculturale ed economico di rilevanza ormai mondiale, abbiamo operato degli approfondimenti, esprimendo anche riflessioni culturali, sociologiche e psicologiche di valore generale.
Come esempio di tale “taglio” saggistico, riportiamo alcuni brani della nostra Introduzione alla pubblicazione (Fenomenologia amaranto: Reggina come metafora).
[…] è Reggio stessa storicamente destinata a soffrire. Lasciamo perdere il gap economico, lasciamo perdere i problemi sociali, lasciamo perdere la ‘ndrangheta… ma quale città ha subito nello stesso secolo due orrendi disastri quali il terremoto del 1908 e i danni e la repressione che hanno accompagnato la comprensibile “rivolta” del 1970-71?
Essere giocatori o tifosi della Reggina, dunque, non è “normale”. Chi lo è sa che dovrà affrontare infinite sofferenze, sa che gli arbitri non avranno quasi mai nei confronti degli amaranto un occhio non diciamo benevolo, ma equilibrato, sa che le altre squadre, gli altri tifosi, non vedranno i colori amaranto con simpatia.
La Reggina in serie A è, infatti, una fastidiosa anomalia. Cosa c’entra una squadra del profondo Sud, anzi della disastrata Calabria, con le pluriscudettate Juventus, Milan, Inter, con società seguite da tifosi in tutto il mondo, con gli stadi enormi, con le ricche realtà di altre regioni, con club dal “bacino d’utenza” dieci volte superiore, o situati in città anche più “piccole” di Reggio, ma con potenzialità economiche e “protezioni” ben maggiori? […]
Ed ecco che la Reggina diventa anche metafora di chi, al mondo d’oggi, è offeso, umiliato dalle ingiustizie, dalla violenza, da un potere politico-economico “globale” che non vuole vedere la povertà, né ammette proteste o lamentele.
La squadra calabrese potrebbe, quindi, geopoliticamente parlando, rappresentare il Sud del mondo, massacrato e sfruttato dai prepotenti e che – si vedano le assurde rivalità tra le squadre meridionali, a vantaggio delle altre – spesso battaglia tra sé e sé in eterne guerre tra poveri. Oppure, dal punto di vista sociale, simboleggiare gli emarginati, le classi subalterne, le “sacche” deboli che la società del benessere non intende accettare.
O, ancora, sul piano psicologico, chi lotta, sfruttando con orgoglio le proprie qualità, pur essendo destinato dagli altri a essere alfine vinto. E potremmo andare oltre, arrivando alla filosofia di Leopardi, di Montale, di Kafka o di Cioran, al dramma dell’uomo dominato da forze oscure, nefaste, incontrollabili, e che pur si ribella al proprio destino. […]
Più di tante altre squadre di calcio la Reggina ha incarnato la storia e le alterne vicende della città, come ha sostenuto giustamente anche Giusva Branca nella Prefazione del libro Reggio Calabria e la sua Reggina. Un intreccio di storie e destini. 1964-2002 (Laruffa), scritto insieme a Francesco Scarpino: “Tuttavia, probabilmente per uno dei numerosi crocevia proposti dalla sorte, o forse perché qui più che altrove la squadra di calcio è realmente espressione del tessuto connettivo cittadino, nel caso di Reggio e della Reggina gli ultimi 35 anni (ma forse anche di più) sono caratterizzati da una straordinaria coincidenza di tempi nella cronologia di sviluppo e declino di entrambe”.
La Reggina si collega pure all’anima popolare della città, al suo folklore, alle sue scaramanzie. […] Ancora, la squadra amaranto, come ai tempi del Catanzaro in serie A degli anni Settanta del XX secolo, incarna la voglia di riscatto e di affermazione di un’intera regione. […]
Certo, il football è un gioco strano assai, che esalta alcune proprie drammatiche peculiarità. Se è vero che, in assoluto, il primo segno della vitalità di un gioco è dato dall’equilibrio che si viene a creare tra i contendenti, ciò vale anche e soprattutto per uno sport come il calcio, che basa di per sé il proprio fascino sull’incertezza (il risultato delle partite è molto, molto aleatorio, determinato da episodi, a volte fortunosi, dalle decisioni dell’arbitro in certe occasioni decisive dell’incontro, e spessissimo non premia chi ha gareggiato meglio o ha creato più occasioni da rete). Tanto che alcuni ricercatori di Los Alamos (Usa) lo hanno definito “il gioco più imprevedibile del mondo”.
Anche paragonando solo un aspetto del calcio a quelli degli altri sport, vale a dire il punteggio, è evidente il peso statistico di un gol rispetto a un canestro o a una meta. Un punto vincente, all’interno di un set (e vi possono essere fino a cinque set!), nel tennis incide circa per l’1%, nella pallavolo sul 2%; nella pallacanestro un tiro da due punti influisce intorno al 3%; nel rugby una meta può arrivare a pesare il 15%.
Tuttavia, è solo nel calcio che, considerando che in ogni partita si segnano in genere tra due e tre gol, una rete influenza il risultato finale in media dal 33% al 50%!
Ancora. Nel football sono decisivi: il tatticismo (una squadra più debole tecnicamente o fisicamente, ma “ben messa in campo”, come si suol dire, secondo un luogo comune abusato, può porre in difficoltà gli avversari più forti); la sorte (un palo, una folata di vento, un ciuffo d’erba, le condizioni meteorologiche, la squalifica di un proprio giocatore o di uno avversario, un infortunio), le decisioni dell’arbitro (un rigore assegnato o meno, un’espulsione, un fuorigioco fischiato o no, ecc.).
Molti rimedi si potrebbero apportare a tutto questo (la moviola in campo, più arbitri, la severa punizione del gioco duro, le espulsioni temporanee al posto delle squalifiche che la domenica successiva favoriscono solamente le squadre avversarie), ma si preferisce lasciare al calcio questo fascino morboso, eppure magico, derivante dall’incertezza e dall'”ingiustizia”, fonte di infiniti dibattiti postpartita, sui quali hanno costruito la loro fortuna certe deprecabili trasmissioni televisive. Lo si mantiene con queste caratteristiche per renderlo più emozionante o perché l’arbitro e, attraverso di lui, il potere possano influire sui risultati?
Tutti questi elementi, anche in contraddizione tra loro (la tecnica e la forza fisica, l’abilità e la furbizia, la genialità e il tatticismo, l’inventiva e la tenacia, il tempismo e la fortuna, la bravura e l’aiuto del “potere”), rendono il football vicinissimo alla vita e alle sue dinamiche, umane e sociali, che, certamente, non premiano sempre i migliori. La vita è lotta, la vita richiede, se si vuol “vincere”, di non andare tanto per il sottile…
La vita è bella…
Una partita è, quindi, in ultima analisi, pure una rappresentazione “drammatizzata” dell’esistenza umana, delle pulsioni, dei desideri, delle frustrazioni e degli slanci di individui e gruppi sociali.
(da Fenomenologia amaranto: Reggina come metafora, Introduzione a Reggina 1999-2008. Dieci anni all’ultimo respiro, Città del Sole Edizioni).
L’immagine: la copertina del libro.
Giuseppe Licandro e Rino Tripodi
(LucidaMente, anno II, n. 24, dicembre 2007)