E’ un compito assai complesso “raccontare” una città immersa nel mondo contemporaneo, poichè le variabili che si intrecciano hanno un sapore inestricabile. Già, si dovrebbe partire dalla dimensione della società globale, prodotto della sintesi tra mezzi e merci, tipica appunto del nostro tempo.
Oppure si potrebbe parlare dell’assenza come suo concetto fondante: assenza di certezze, spesso di diritti, assenza di valori, ma anche di identità collettiva, assenza di regole condivise, ma anche di limiti, poichè attraverso il prevalere della quantità sulla qualità tutto è concesso…
O, ancora, si potrebbe tirare fuori il vecchio, ma sempre attuale, ragionamento sulle mete da raggiungere: ricchezza, successo, benessere, insomma, che nella realtà non sono concessi a tutti.
Beh, certo, queste sono tutte variabili che possono permettere di raccontare una città del nostro tempo, ma non una città in terra di Sicilia… Qui le variabili sono altre… Quando circa due mesi fa le immagini della piccola intifada catanese hanno raggiunto tutto il mondo, un moto di rabbia, collera, indignazione, ha colpito i cuori di tutti gli esseri umani civilizzati. Tutti abbiamo ricevuto una piccola scossa dopo aver osservato le immagini di una rivolta urbana a sfondo calcistico, nel corso della quale un uomo veniva ucciso. Tutti, dicevamo, tranne una parte della città stessa. Ma è possibile che una parte della città sia rimasta indifferente? Ecco, forse abbiamo trovato la variabile che ci serviva per raccontare la nostra storia…
Chi è siciliano o ha vissuto in terra di mafia a questa osservazione potrebbe rispondere che in una città dove si spara e si ammazza frequentemente diventa facile l’indifferenza alla barbarie. Sì, ma qui la cosa è più sottile perchè a morire non era un mafioso ma un poliziotto. “Sbirri bastaddi, vannu ammazzari a tutti pari…!” (vi devono uccidere tutti) così esordiva il custode dello stadio Massimino di Catania prima di essere arrestato… Sì, perchè il custode, insieme alla sua famiglia, “custodivano”, prima che la struttura pubblica, armamentari vari per i “clan” degli ultrà… Filippo Raciti, insomma, non era un uomo bensì uno sbirro, e sembra quasi una ridefinizione dei paradigmi sciasciani de Il giorno della civetta… La mattina dopo la guerriglia, in piazza Spedini, davanti allo stadio, come se nulla fosse successo, c’era il mercatino rionale; uomini e donne tra una bancarella e l’altra facevano le loro compere… Nel frattempo le strade della città si coloravano di festa per la patrona, sant’Agata. Festa vissuta in modo mesto da quella parte della cittadinanza indifferente, non perchè un uomo era stato ucciso ma perchè i fuochi d’artificio erano stati annullati… “Non è come gli altri anni,” continuavano a ripetere le persone per strada “mancano i fuochi…”.
Cos’è dunque che nasconde questa indifferenza? Nei primi anni Ottanta, il sociologo Raimondo Catanzaro scriveva nel saggio Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia (Rizzoli) che ciò che contraddistingue il siciliano è la sua voluttà epidermica nell’aggirare le regole. Negli stessi anni Pippo Fava, il più grande giornalista isolano, ucciso dal clan Santapaola, sottolineava provocatoriamente che “noi siciliani siamo tutti mafiosi”. Cose antiche e secolari queste, certo, su cui si è potuta costruire la cultura mafiosa, che appartiene a tutti i livelli della stratificazione sociale. Sciascia, prima di morire, diceva che per risolvere i problemi della Sicilia basta una cosa semplice (ma impossibile, aggiungiamo noi): l’affermazione dello stato di diritto… E, allora, lo “sbirro” chi è, se non l’esecutore dello stato di diritto, cioè l’esecutore di una cosa impossibile da realizzare… Uno degli slogan tra i più cantati dagli ultrà che hanno dato vita alla piccola intifada rossoazzurra era il seguente: “Son contento solo se vedo morire uno sbirro, calci e pugni nella schiena, tanto a noi non ci fai pena”.
Ma chi deve essere portatore dello stato di diritto? Le istituzioni in primo luogo. Ma quali istituzioni? Quelle che hanno generato quartieri come Librino? Perchè è da lì che arrivavano i giovani assassini dell’ispettore Raciti. Già, Librino, il quartiere che sta proprio alle spalle dell’areoporto… Ogni italiano almeno una volta nella vita dovrebbe andarci in un quartiere come quello, per vergognarsi di essere italiano… E dire che era stato progettato da Kenzo Tange, alla fine degli anni Sessanta. Spazi verdi, infrastutture per i giovani e gli anziani, abitazioni e luoghi rispettosi della sostenibilità urbana. Era un progetto modello. Poi le istituzioni hanno costruito chilometri di palazzoni, dimenticando tutto il resto, in molti casi scordandosi perfino degli scarichi fognari… Da modello a spettro della cultura mafiosa, dove posizionare quella fetta di popolazione senza diritti, nel senso proprio del termine… Una riproposizione della cittadinanza passiva che vigeva in Europa fino al XIX secolo. Una riproposizione, è ovvio, poichè questi cittadini hanno il diritto di voto, possono cioè eleggere i loro rappresentanti nelle istituzioni…
Giuseppe Arena è uno degli astri nascenti di Alleanza Nazionale in città. Quando entra allo stadio saluta con le pacche sulle spalle chiunque si avvicini… Qualche bacio e la celebre frase: “Tutto apposto…?“. Chi ci parla di lui, sicuramente un “detrattore”, ci dice che è il classico “parolaio”, cioè uno che parla, uno che promette mari e monti… Arena, astro nascente di An in città, è il vicesindaco di Umberto Scapagnini, il medico personale di Berlusconi, secondo cui il Cavaliere sarebbe potenzialmente immortale, ma questa è un’altra storia… U sinnacu, ormai al secondo mandato, è un personaggio sui generis: vecchio massone, ex craxiano, passato alle cronache per le sue amanti sudamericane… U sinnacu, anzichè interrompere la festa di sant’Agata per lutto cittadino, ha voluto lamentarsi della “manipolazione” dei dati de Il Sole 24 Ore, che, nella graduatoria di vivibilità delle città italiane, assegnava l’ultimo posto alla comunità da lui amministrata. Ma torniamo ad Arena. Perchè, se si va a scorrere le deleghe degli assessori comunali, si scopre che il giovane leone di An e vicesindaco, ha la delega al “Catania Calcio”. Sì, proprio così; per quanto possa sembrare una barzelletta, è proprio così… Domanda un po’ ingenua: ma politicamente a che serve una delega al Catania Calcio?
Medioevo prossimo venturo scriveva Roberto Vacca negli anni Settanta, preconizzando per il nuovo secolo un ritorno della società all’oscurantismo. Ma in Sicilia il feudalesimo, in altre forme da quello medievale, è più che mai un modus vivendi… E’ feudalesimo una scuola elementare, sempre a Librino, che deve chiudere perchè il Comune non ha pagato l’Enel. E’ feudalesimo la sassaiola a una macchina della polizia che, ancora a Librino, cerca di arrestare uno spacciatore. E’ feudalesimo il potere culturale, sociale ed economico dei clan mafiosi su tutto il territorio. E’ feudalesimo il fatto che dei ragazzini possano essere allevati dalla mafia per fare i killer. E’ feudalesimo un salario di trecento euro al mese, per otto ore di lavoro al giorno, “concesso” alle commesse dei negozi, così come ai praticanti commercialisti. E’ feudalesimo la sudditanza dei cittadini sia passivi che attivi (la borghesia) nei confronti del politico di turno per un posto di lavoro… Già la borghesia, ribattezzata qualche tempo fa da Piero Grasso, coordinatore nazionale antimafia, borghesia mafiosa, cioè quella che proprio sull’assenza dello stato di diritto prospera… Anche la borghesia mafiosa è naturalmente rimasta scontenta che i fuochi di sant’Agata non siano stati esplosi, quella borghesia che, insieme ai giovani di Librino, urlano allo stadio che il poliziotto è il “primo nemico”. Perchè anche questo succede…
A chi il dovere di difendere lo stato di diritto, dunque, in una città dove i significati della civiltà alfabeta, per dirla alla McLuhan, sono stati invertiti? E’ difficile contestualizzare un concetto come questo all’interno della dimensione dello stadio, anche perchè esso è un porto franco, dove, a prescindere dalla partita di calcio, è possibile esprimere al massimo della furia i significati invertiti del senso di appartenenza: no alle leggi, morte allo sbirro… Anche qui siamo di fronte a una ridefinizione storica, quella dell’antica Roma, dove la violenza e la morte messa in scena dai gladiatori era lo spettacolo della comunità sociale. Lo stadio ribalta le parti poiché gli spalti diventano un luogo autonomo dall’evento sportivo. Lì, allo stadio, per definizione, non esistono leggi: le armi per la guerriglia possono essere ben nascoste prima della partita, anche perchè il custode è “cosa nostra”. Chi normalmente andava allo stadio Massimino di Catania sapeva che gli ultrà, giorni prima della partita, nascondevano lì dentro le loro armi dal sapore medievale, perchè la struttura è sempre aperta…
Se questa è la realtà, è mai possibile che un magistrato o la polizia stessa o anche la società Catania Calcio, non abbiano mai pensato di intervenire per prevenire? Lungi da noi l’intento di critica nei confronti del lavoro delle autorità costituite, ma ci sono particolari che, seppure di poca importanza nel contesto generale, rimangono un po’ inquietanti, come ad esempio chi e perchè ha assegnato quel posto di lavoro al custode ultrà… Così come alcuni quesiti, anche questi forse di poca importanza, rimangono senza risposta… Non si poteva immaginare che lasciare aperto lo stadio senza controlli avrebbe costituito un potenziale pericolo? Il mercatino, dopo l’infausta notte, non si poteva evitare di farlo svolgere…? La festa di sant’Agata non si poteva sospendere? Piccole cose… Però rimane la certezza che queste piccole cose sarebbero state fatte in tutte quelle città che possono essere raccontate attraverso le variabili del nostro tempo storico, dove, malgrado il caos epocale, vige lo stato di diritto…
L’immagine: lo stadio Massimino di Catania, squalificato sino al 30 giugno 2007; sullo sfondo, la “città”.
Marco Marano
(LucidaMente, anno II, n. 16, aprile 2007)