«Sulla banchina un vecchio uomo in un pastrano intignato aspettava la gente allo sbarco e non vendeva altro che quattro fiori di stoffa giallo e rosa. Parve a Mosco che quest’uomo fosse il simbolo di una civiltà intera, un essere ozioso contro la cui razza l’Europa faceva una delle sue conquiste. Quegli offriva delle rose, questi offrivano un cappello. Due cose che apparentemente si equivalevano, due cose oziose, e in esse erano due civiltà. Egli si sentiva dalla parte del più forte, e i suoi pensieri mutarono interamente. Un’automobile rombava alle porte della dogana come un segno piantato della civiltà occidentale, e sul ritmo del motore il pensiero del meccanico, di qualunque paese si fosse, si formava sulla linea dei pensieri europei. %5B…%5D Su questo egli si sentiva come un inviato d’una potenza occulta: i cappelli, le automobili erano altrettanti segni di civiltà che non vuol morire, che si nutre della morte delle altre civiltà, che le adatta a sé e le uniforma, che vivrà fino a quando vi saranno terre da scoprire e da occupare. Occupare con qualunque segno».
(da L’ultima delle mille e una notte, in Il mare, Ilisso Rubbettino, 2006)
Corrado Alvaro
LA RILETTURA
Poeta, narratore, giornalista, saggista, traduttore, drammaturgo, sceneggiatore, critico teatrale e cinematografico. Tutto ciò fu Corrado Alvaro (1895-1956), uno degli intellettuali più completi e versatili della cultura italiana, in grado di cimentarsi ad alto livello con generi artistico-letterari sempre difformi. Lo scrittore calabrese – che trascorse gran parte della sua vita lontano dalla terra natia, dimorando a Bologna, Milano, Parigi, Berlino e soprattutto a Roma – collaborò con i principali quotidiani italiani (il Resto del Carlino, La Stampa, Corriere della Sera, Avanti!) e fu anche – tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943 – direttore del Popolo di Roma e, nel 1945, del Giornale radio. Il lavoro giornalistico gli permise di visitare parecchi stati esteri, tra cui la Grecia, la Turchia e l’Urss, e di entrare in contatto con le loro differenti culture.
L’ultima delle mille e una notte – Proprio il viaggio in Turchia, compiuto nel 1931, gli ispirò un reportage per La Stampa e il racconto L’ultima delle mille e una notte, che fu inserito nella raccolta di scritti Il mare, edita nel 1934 da Mondadori (e ristampata nel 2006 da Ilisso Rubbettino, nella collana Scrittori di Calabria). La vicenda è ambientata nel Primo dopoguerra a Parigi, dove il protagonista (Mosco, originario dell’Anatolia) vive di espedienti, con la bella e volubile moglie Olimpia. Dopo essersi procurato un’ingente somma di franchi – raggirando un amico facoltoso -, egli decide di investire il denaro nel commercio di uniformi e berretti militari.
I cappelli e la crisi di una civiltà – L’idea gli è balenata quando ha appreso che il capo del governo turco, Mustafà Kemal “Ataturk”, ha dato inizio alla modernizzazione del proprio paese, abolendo l’uso del fez. La storia, quindi, si sposta bruscamente a Istanbul, dove Mosco, con l’aiuto di un mercante locale, realizza lauti profitti, divenendo testimone della rapida decadenza della civiltà locale, travolta dall’impatto con i costumi occidentali. Emblema dell’ineluttabile trasformazione della società turca sono due personaggi minori, Nurredin e Azisa: il primo, un giornalista ostile al nuovo regime, finirà suicida, mentre la seconda, un’attrice teatrale, si adeguerà alle mode occidentali, abbandonando il teatro nazionalpopolare per iniziare a recitare secondo i canoni della comédie europèenne.
Un invito alla convivenza – Le considerazioni di Alvaro sull’incontro/scontro tra civiltà diverse anticipano di oltre mezzo secolo le discussioni della nostra epoca. Mosco si sente “dalla parte del più forte”, ma prende coscienza delle inclinazioni colonizzatrici del mondo occidentale, “che si nutre della morte delle altre civiltà” e “che le adatta a sé e le uniforma”. E proprio oggi, in un momento storico di forti tensioni internazionali, le parole di Alvaro ci appaiono come un monito, un invito a riflettere sui guasti provocati dalla forma mentis prevalente nella società occidentale, abbarbicata alla logica del profitto e votata a “occupare con qualunque segno”.
Il recupero dell'”economia vernacolare” – Dagli esiti nefasti (guerra, distruzione dell’ambiente, ecc.) di questa “volontà di potenza” potrà salvarci solo la capacità di convivere con gli altri popoli. Come ripete da qualche tempo il sociologo francese Serge Latouche, occorre recuperare forme di “economia vernacolare”, legata alle abitudini locali e alla cultura del “dono”. Non per chiudersi nel provincialismo, ma per scongiurare l’omogeneizzazione delle civiltà, spingendo anzi per un confronto non più fagocitante dell’Occidente verso gli “altri mondi”.
L’immagine: “icona” di Corrado Alvaro.
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno II, n. 13, gennaio 2007)